Karl Marx e Friedrich Engels

Contro lo stato

(1844-1891)

 



Note

Sono qui raccolti alcuni passaggi sullo stato ripresi dalle opere di Marx ed Engels. L'idea che questi due pensatori siano stati del tutto affascinati dall'entità stato tanto da farne l'agente indispensabile per l'attuazione del socialismo ne esce completamente a pezzi. Sembra allora altamente plausibile ricavarne la convinzione che quella interpretazione, che continua tuttora, non è stata e non è altro che una manipolazione, ad alta disonestà intellettuale, perpetrata da politicanti e intellettuali da strapazzo di ogni genere e colore, giusto per costruirsi un posticino all'interno del loro stato, socialista, popolare, liberale, comunista, fascista o altro.
Insomma: destra o sinistra, purché lo stato esista.

 


 

Lista dei temi

Lo Stato come presunto arbitro imparziale tra interessi universali e interessi particolari
Lo Stato come comunità irreale
La società borghese genera lo Stato politico
La società borghese sottomessa allo Stato (assoluto e parlamentare)
Lo stato come potere dominante esterno e interesse generale illusorio
Lo Stato moderno come forma di organizzazione politica della borghesia
Le leggi statali introdotte per la protezione della classe dominante
La fine del potere politico e delle illusioni da esso generate
La centralizzazione capitalistica e statale come tappe necessarie verso il superamento dello stato: illusione e superamento dell'illusione
Il cretinismo parlamentare
Lo Stato e il regno della finanza
Lo stato e l'aristocrazia finanziaria
Il debito statale come interesse diretto della borghesia
Gli interessi dello stato sono gli interessi della borghesia
Lo stato come parassita
Lo stato come macchina per estorcere denaro
Lo stato come sovrastruttura
Lo stato come strumento per l'asservimento dei produttori
Lo spauracchio del “socialismo” utilizzato dalla borghesia per imporre lo statismo
La trasformazione-degenerazione del socialismo in statismo
Il superamento dello Stato Borghese
L'estinzione dello Stato
La Comune di Parigi e lo Stato Borghese
Oltre lo Stato
Riferimenti bibliografici

 


 

Lo Stato come presunto arbitro imparziale tra interessi universali e interessi particolari (^)

Lo Stato non troverà mai nello "Stato e nell'ordinamento della società" il fondamento dei mali sociali, come il "prussiano" pretende dal suo re. Là dove sono partiti politici, ciascuno trova il fondamento di ciascun male nel fatto che al timone dello Stato si trova non già esso ma il suo partito avversario. Perfino i politici radicali e rivoluzionari cercano il fondamento del male non già nell'essenza dello Stato ma in una determinata forma di Stato, al cui posto essi vogliono mettere un'altra forma di Stato.
Lo Stato e l'ordinamento della società, dal punto di vista politico, non sono due cose differenti. Lo Stato è l'ordinamento della società. In quanto lo Stato ammette l'esistenza di inconvenienti sociali, li ricerca o in leggi di natura, cui nessuna forza umana può comandare, o nella vita privata, che è indipendente da esso, o nella inefficienza dell'amministrazione che da esso dipende. Così l'Inghilterra trova che la miseria ha il suo fondamento nella legge di natura, secondo la quale la popolazione supera necessariamente i mezzi di sussistenza. Da un'altra parte, il pauperismo viene spiegato come derivante dalla cattiva volontà dei poveri, così come secondo il re di Prussia dal sentimento non cristiano dei ricchi, e secondo la Convenzione dalla disposizione sospetta, controrivoluzionaria, dei proprietari. Perciò l'Inghilterra punisce i poveri, il re di Prussia ammonisce i ricchi e la Convenzione ghigliottina i proprietari.
Infine, tutti gli Stati ricercano la causa in deficienze accidentali intenzionali dell'amministrazione, e perciò in misure amministrative i rimedi dei loro mali. Perché? Appunto perché l'amministrazione è l'attività organizzatrice dello Stato.
Lo Stato non può eliminare la contraddizione tra lo scopo determinato e la buona volontà dell'amministrazione da un lato e i suoi mezzi come pure le sue possibilità dall'altro, senza eliminare se stesso, poiché esso poggia su tale contraddizione. Esso poggia sulla contraddizione tra vita privata e pubblica, sulla contraddizione tra gli interessi generali e gli interessi particolari. L'amministrazione deve perciò limitarsi ad una attività formale e negativa, poiché proprio là dove ha inizio la vita civile e il suo lavoro, là termina il suo potere. Anzi, di fronte alle conseguenze che scaturiscono dalla natura asociale di questa vita civile, di questa proprietà privata, di questo commercio, di questa industria, di questa reciproca rapina delle differenti sfere civili, di fronte a queste conseguenze, l'impotenza è la legge di natura dell'amministrazione. Infatti, questa lacerazione, questa infamia, questa schiavitù della società civile è il fondamento naturale su cui poggia lo stato moderno, così come la società civile della schiavitù era il fondamento su cui poggiava lo Stato antico.
L'esistenza dello Stato e l'esistenza della schiavitù sono inseparabili. Lo Stato antico e la schiavitù antica - schiette antitesi classiche - non erano saldati l'uno all'altra più intimamente che non siano lo Stato moderno ed il moderno mondo di trafficanti, ipocrite antitesi cristiane. Se lo Stato moderno volesse eliminare l'impotenza della sua amministrazione, sarebbe costretto a eliminare l'odierna vita privata. Se esso volesse eliminare la vita privata, dovrebbe eliminare se stesso, poiché esso esiste soltanto nell'antitesi con quella. Ma nessun essere vivente crede che i difetti della sua esistenza abbiano le loro radici nel principio della sua vita, nell'essenza della sua vita, bensì in circostanze al di fuori della sua vita. Il suicidio è contro natura. Perciò lo Stato non può credere all'impotenza interiore della sua amministrazione, cioè di se stesso. Esso può scorgere soltanto difetti formali, casuali, della medesima e tentare di porvi riparo. Se tali modificazioni sono infruttuose allora l'infermità sociale è una imperfezione naturale, indipendente dall'uomo, una legge di Dio, ovvero la volontà dei privati è troppo corrotta per corrispondere ai buoni scopi dell'amministrazione. E quali sono questi pervertiti privati? Essi mormorano contro il governo ogni qualvolta esso limita la libertà, e pretendono dal governo che impedisca le conseguenze necessarie di tale libertà.
Quanto più potente è lo Stato, quanto più politico quindi è un paese, tanto meno esso è disposto a ricercare nel principio dello Stato, dunque nell'odierno ordinamento della società, della quale lo Stato è l'espressione attiva, autocosciente e ufficiale, il fondamento delle infermità sociali, e ad intenderne il principio generale. L'intelletto politico è politico appunto in quanto pensa entro i limiti della politica. Quanto più esso è acuto, quanto più è vivo, tanto meno è capace di comprendere le infermità sociali. Il periodo classico dell'intelletto politico è la Rivoluzione francese. Ben lungi dallo scorgere nel principio dello Stato la fonte delle deficienze sociali, gli eroi della Rivoluzione francese scorsero piuttosto nelle deficienze sociali la fonte delle cattive condizioni politiche. Così Robespierre vede nella grande miseria e nella grande ricchezza un ostacolo alla pura democrazia. Egli desidera perciò stabilire una generale frugalità spartana. Il principio della politica è la volontà. Quanto più unilaterale, cioè quanto più compiuto è l'intelletto politico, tanto più esso crede all'onnipotenza della volontà, e tanto più è cieco dinnanzi ai limiti naturali e spirituali della volontà, tanto più dunque è incapace di scoprire la fonte delle infermità sociali. Non è necessario argomentare ulteriormente contro la balorda speranza del "prussiano", secondo la quale "l'intelletto politico" è chiamato "a scoprire le radici della miseria sociale per la Germania".
(Karl Marx, Glosse marginali di critica all'articolo : Il re di Prussia e la riforma sociale, Firmato : Un Prussiano, 1844)

 


 

Lo Stato come comunità irreale

Lo Stato politico completo è, secondo la propria essenza, la vita dell’uomo come specie, in contrapposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera statale, nella società borghese, ma come caratteristiche della società borghese. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l'uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nell’esistenza, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si afferma come ente comunitario, e la vita nella società borghese nella quale agisce come privato, considera gli altri uomini come mezzo, degrada sé stesso a mezzo e diventa trastullo di forze estranee. Lo Stato politico si comporta nei confronti della società borghese in modo altrettanto spiritualistico come il cielo nei confronti della terra.
Nella sua realtà più immediata, nella società borghese, l'uomo è un essere profano. Qui, dove egli valuta sé stesso e gli altri come individui reali, l'uomo è una apparenza irreale. Nello Stato invece, dove l'uomo vale come specie, egli è il membro immaginario di una sovranità presunta, è spogliato della sua reale vita individuale e riempito di una irreale universalità.
(Karl Marx, La questione ebraica, 1844)

 


 

La società borghese genera lo Stato politico

La società borghese viene riconosciuta [da Hegel] come necessaria nel suo contrapporsi allo Stato politico, perché viene riconosciuto come necessario lo Stato politico.
(Karl Marx, La questione ebraica, 1844)

Per parlare con precisione e nel significato prosaico, i membri della società borghese non sono atomi. La proprietà caratteristica dell’atomo consiste nel non avere alcuna proprietà e perciò nessuna relazione, condizionata dalla sua propria necessità naturale, con altri esseri fuori di esso. L’atomo è privo di bisogni, autosufficiente; il mondo fuori di esso è il vuoto assoluto, cioè questo mondo è privo di contenuto, di significato, di espressione, proprio perché l'atomo possiede in sé stesso tutta la pienezza. L’individuo egoistico della società borghese si può gonfiare, nella sua rappresentazione non sensibile e nella sua astrazione non vivente, fino a diventare l’atomo, cioè un’essenza irrelata, autosufficiente, priva di bisogni, assolutamente piena, beata. La realtà sensibile, non beata, non si preoccupa dell'immaginazione dell’individuo; ciascuno dei sensi di lui lo costringe a credere all’essere del mondo e degli individui fuori di lui, ed anche il suo stomaco profano gli ricorda quotidianamente che il mondo fuori di lui non è vuoto ma è ciò che propriamente riempie.
Ciascuna delle sue attività essenziali e delle sue proprietà, ciascuno dei suoi impulsi vitali diventa il bisogno, la penuria, che trasforma il suo egoismo, il suo desiderio di sé, in desiderio di altre cose e di altri uomini fuori di lui. Ma, poiché il bisogno del singolo individuo non ha una connessione immediata con il soddisfacimento, ogni individuo è quindi costretto a creare questa connessione, diventando parimenti il mediatore tra il bisogno altrui e gli oggetti di questo bisogno. Sono quindi la necessità naturale, le caratteristiche umane essenziali, per quanto alienate possano apparire, e l’interesse, che tengono uniti i membri della società borghese; il loro legame reale è la vita civile, e non la vita politica.
Non è dunque lo Stato che tiene uniti gli atomi della società civile, ma il fatto che essi sono atomi solo nella rappresentazione, nel cielo della loro immaginazione – il fatto che nella realtà sono esseri fortemente distinti dagli atomi, cioè non sono egoisti divini, ma uomini egoistici. Solo la superstizione politica immagina ancora che la vita civile debba di necessità essere tenuta unita dallo Stato, mentre, al contrario, nella realtà, lo Stato è tenuto unito dalla vita civile.
(Karl Marx e Friedrich Engels, La sacra famiglia, 1845, Capitolo VI, 3)

 


 

La società borghese sottomessa allo Stato (assoluto e parlamentare)

Napoleone rappresentava l’ultima lotta del terrore rivoluzionario contro la società borghese che era stata proclamata dalla stessa Rivoluzione, contro la sua politica. Napoleone, senza alcun dubbio, già aveva capito l’essenza dello Stato moderno; egli comprese che si basava sullo sviluppo senza vincoli della società borghese, sul libero corso dato agli interessi privati, e via discorrendo. Egli decise di riconoscere e proteggere queste fondamenta. Non era affatto un terrorista con la testa tra le nuvole. Eppure, al tempo stesso, considerava lo Stato come un fine in sé stesso e trattava la società borghese solo come un tesoriere e come se fosse a lui subordinata, priva di una sua propria volontà. Egli perfezionò il Terrore sostituendo la guerra permanente alla rivoluzione permanente. Alimentò l’egoismo della nazione francese fino a sazietà ma richiese anche il sacrificio della borghesia per quanto riguarda i loro affari, divertimenti, ricchezze, ecc. ogni qualvolta ciò fosse necessario per lo scopo politico della conquista. Se egli soppresse in maniera dispotica il liberalismo della società borghese - l’idealismo politico della sua pratica quotidiana - non mostrò maggiore considerazione per i suoi interessi materiali essenziali, il commercio e l’industria, tutte le volte che essi entravano in conflitto con i suoi interessi politici. Il suo disprezzo per gli hommes d’affaires era associato con il suo disprezzo per gli ideologhi. Anche nella sua politica interna egli lottò contro la società borghese in quanto opposta allo Stato che, nella sua persona, egli riteneva essere un fine assoluto in sé. Per cui dichiarò nel Consiglio di Stato che non avrebbe accettato il fatto che il proprietario di vasti appezzamenti di terreno li coltivasse o meno come lui gradisse. Concepì anche il piano di subordinare il commercio ai voleri dello Stato attraverso la nazionalizzazione dei trasporti. Gli uomini d’affari francesi si diedero da fare per bloccare questo piano contribuendo a dare un primo colpo al suo potere. Coloro che controllavano l’approvvigionamento di Parigi lo forzarono, attraverso una penuria di merci creata artificialmente, a ritardare l’inizio della campagna di Russia di quasi due mesi e lo costrinsero ad iniziarla troppo tardi nel corso dell’anno.
(Karl Marx e Friedrich Engels, La sacra famiglia, 1845, Capitolo VI, 3)

Il disagio finanziario rese fin dall'inizio la monarchia di luglio dipendente dalla grande borghesia, e la sua dipendenza dalla grande borghesia fu la sorgente inesauribile di un crescente disagio finanziario. Impossibile subordinare l'amministrazione dello Stato all'interesse della produzione nazionale senza stabilire l'equilibrio nel bilancio, l'equilibrio tra le uscite e le entrate dello Stato. E come stabilire questo equilibrio senza limitare le spese dello Stato, cioè senza vulnerare interessi che erano altrettanti sostegni del sistema dominante, e senza riordinare la ripartizione delle imposte, cioè senza rigettare una parte notevole del peso delle imposte sulle spalle della grande borghesia stessa?
(Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, 1850, I)

Ma sotto la monarchia assoluta, durante la prima rivoluzione, sotto Napoleone, la burocrazia era stata soltanto un mezzo per preparare il dominio di classe della borghesia. Sotto la Restaurazione, sotto Luigi Filippo, sotto la repubblica parlamentare, essa era stata lo strumento della classe dominante, per quanto grandi fossero i suoi sforzi per diventare un potere indipendente.
È soltanto sotto il secondo Bonaparte che lo Stato sembra essere diventato completamente indipendente. La macchina dello Stato si è talmente rafforzata di fronte alla società borghese, che le basta avere alla sua testa il capo della Società del 10 Dicembre, un avventuriero qualsiasi venuto dal di fuori, levato sugli scudi da una soldatesca ubriaca, che egli ha comprato con acquavite e salsicce, e a cui deve continuamente gettare altra salsiccia. Di qui la cupa disperazione, il senso di umiliazione infinita e di degradazione che stringe la Francia alla gola e le mozza il respiro. La Francia si sente come disonorata.
(Karl Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852, Capitolo VII)

 


 

Lo Stato come potere dominante esterno e interesse generale illusorio

Questo fissarsi dell'attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico, e appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma sempre sulla base reale di legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue, la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri interessi, e soprattutto — come vedremo più in particolarmente in seguito — sulla base delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre. Ne consegue che tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi, e inoltre che ogni classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale, essendovi costretta in un primo momento. Appunto perché gli individui cercano soltanto il loro particolare interesse, che per loro non coincide col loro interesse collettivo, questo viene imposto come un interesse « generale», anch’esso a sua volta particolare e specifico, ad essi « estraneo » e da essi« indipendente», o gli stessi individui devono muoversi in questo dissidio, come nella democrazia. Giacché d’altra parte anche la lotta pratica di questi interessi particolari che sempre si oppongono realmente agli interessi collettivi e illusoriamente collettivi rende necessario l’intervento pratico e l’imbrigliamento da parte dell’interesse «generale» illusorio sotto forma di Stato.
(Karl Marx e Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, 1846, Capitolo II)

La prima Rivoluzione francese, a cui si poneva il compito di spezzare tutti i poteri indipendenti di carattere locale, territoriale, cittadino e provinciale, al fine di creare l'unità borghese della nazione, dovette necessariamente sviluppare ciò che la monarchia assoluta aveva incominciato: l'accentramento; e in pari tempo dovette sviluppare l'ampiezza gli attributi e gli strumenti del potere governativo. Napoleone portò alla perfezione questo meccanismo dello Stato. La monarchia legittima e la monarchia di luglio non vi aggiunsero nulla, eccetto una più grande divisione del lavoro, che si sviluppava nella stessa misura in cui la divisione del lavoro nell'interno della società borghese creava nuovi gruppi di interessi, e quindi nuovo materiale per l'amministrazione dello Stato. Ogni interesse comune fu subito staccato dalla società e contrapposto ad essa come interesse generale, più alto, strappato all'iniziativa individuale dei membri della società e trasformato in oggetto di attività del governo, a partire dal ponti, dagli edifici scolastici e dai beni comunali del più piccolo villaggio, sino alle ferrovie, al patrimonio nazionale e all'Università di Francia. La repubblica parlamentare, infine, si vide costretta a rafforzare, nella sua lotta contro la rivoluzione, assieme alle misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla. I partiti che successivamente lottarono per il potere considerarono il possesso di questo enorme edificio dello Stato come il bottino principale del vincitore.
(Karl Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852, Capitolo VII)

 


 

Lo Stato moderno come forma di organizzazione politica della borghesia

A questa proprietà privata moderna corrisponde lo Stato moderno, che attraverso le imposte è stato a poco a poco comperato dai detentori della proprietà privata, che attraverso il sistema del debito pubblico è caduto interamente nelle loro mani, e la cui esistenza ha finito col dipendere del tutto, nell’ascesa o nella caduta dei titoli di Stato in Borsa, dal credito commerciale che gli assegnano i detentori della proprietà privata, i borghesi. Per il solo fatto che è una classe e non più un ordine, la borghesia è costretta a organizzarsi nazionalmente, non più localmente, e a dare una forma generale al suo interesse medio. Attraverso l’emancipazione della proprietà privata dalla comunità, lo Stato è pervenuto a un’esistenza particolare, accanto e al di fuori della società civile; ma esso non altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità, tanto verso l’esterno che verso l’interno, al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi.
(Karl Marx e Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, 1846, Capitolo III)

Ciascuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente progresso politico.
Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, associazioni armate e autonome nell'età dei Comuni, qui repubblica cittadina indipendente, là terzo stato tributario della monarchia, poi al tempo della manifattura contrappeso alla nobiltà nella monarchia cetuale o in quella assoluta e ancora pilastro fondamentale delle grandi monarchie, la borghesia si conquistò infine l'assoluto dominio politico dopo la nascita della grande industria e del mercato mondiale nel moderno
Stato rappresentativo.Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese.
(Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1848)

 


 

Le leggi statali introdotte per la protezione della classe dominante

Poiché lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l’intera società civile di un’epoca, ne segue che tutte le istituzioni comuni passano attraverso l’intermediario dello Stato e ricevono una forma politica. Di qui l’illusione che la legge riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata dalla sua base reale, sulla volontà libera. Allo stesso modo, il diritto a sua volta viene ridotto alla legge.
(Karl Marx e Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, 1846, Capitolo III)

 


 

La fine del potere politico e delle illusioni da esso generate

… l'emancipazione politica non è la forma completa e perfetta dell'emancipazione umana. Il limite dell'emancipazione politica si mostra subito in questo, che lo Stato si può liberare da un limite senza che l'uomo ne risulti realmente libero, che lo Stato può essere uno Stato libero, senza che l'uomo sia un uomo libero.
(Karl Marx, La questione ebraica, 1844)

Herr Bruno [Bauer], che fa confusione tra lo stato e l’umanità, tra i diritti dell’uomo e l’uomo stesso, tra l’emancipazione politica e l’emancipazione umana, era destinato se non a concepire, almeno a immaginare un particolare tipo di stato, un ideale filosofico di stato.
(Karl Marx e Friedrich Engels, La sacra famiglia, 1845, Capitolo VI, 1)

Ciò vuol dire forse che dopo la caduta dell'antica società ci sarà una nuova dominazione di classe, riassumentesi in un nuovo potere politico? No.
La condizione dell'affrancamento della classe lavoratrice è l'abolizione di tutte le classi, come la condizione dell’affrancamento del « terzo stato  », dell’ordine borghese, fu l’abolizione di tutti gli stati e di tutti gi ordini.
La classe lavoratrice sostituirà, nel corso del suo sviluppo, all'antica società civile una associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il riassunto ufficiale dell'antagonismo nella società civile.
(Karl Marx, Miseria della filosofia, 1847, Parte II, 5)

Una volta sparite, nel corso di questa evoluzione, le differenze di classe, e una volta concentrata tutta la produzione nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il suo carattere politico. Il potere pubblico in senso proprio è il potere organizzato di una classe per soggiogarne un'altra. Quando il proletariato inevitabilmente si unifica nella lotta contro la borghesia, erigendosi a classe egemone in seguito a una rivoluzione, e abolendo con la violenza, in quanto classe egemone, i vecchi rapporti di produzione, insieme a quei rapporti di produzione esso abolisce anche le condizioni di esistenza della contrapposizione di classe, delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe.
Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e le sue contrapposizioni di classe, subentra un'associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.
(Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1848, Parte II)

 


 

La centralizzazione capitalistica e statale come tappe necessarie verso il superamento dello stato : illusione e superamento dell'illusione

Prima fase : illusione

Abbiamo già visto sopra che il primo passo nella rivoluzione dei lavoratori è l'elevazione del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia.
Il proletariato userà il suo potere politico per strappare progressivamente alla borghesia tutti i suoi capitali, per centralizzare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, dunque del proletariato organizzato in classe dominante, e per moltiplicare il più rapidamente possibile la massa delle forze produttive.
In un primo momento ciò può accadere solo per mezzo di interventi dispotici sul diritto di
proprietà e sui rapporti di produzione borghesi, insomma attraverso misure che appaiono economicamente insufficienti e inconsistenti, ma che nel corso del movimento si spingono oltre i propri limiti e sono inevitabili strumenti di trasformazione dell'intero modo di produzione.
Queste misure saranno naturalmente differenti da paese a paese.
Per i paesi più sviluppati potranno comunque essere molto generalmente prese le misure seguenti:
1) Espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della proprietà fondiaria per le spese dello Stato.
2) Forte imposta progressiva.
3) Abolizione del diritto di successione.
4) Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.
5) Centralizzazione del credito nelle mani dello Stato attraverso una banca nazionale dotata di capitale di Stato e monopolio assoluto.
6) Centralizzazione di ogni mezzo di trasporto nelle mani dello Stato.
7) Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano sociale.
8) Uguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura.
9) Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e dell'industria, misure volte ad abolire gradualmente la contrapposizione di città e campagna.
10) Educazione pubblica e gratuita di tutti i bambini. Abolizione del lavoro dei bambini nelle fabbriche nella sua forma attuale. Fusione di educazione e produzione materiale, ecc., ecc.
(Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1848, Parte II)

Seconda fase : superamento dell'illusione

Non va dunque assolutamente conferito un peso particolare alle misure rivoluzionarie proposte alla fine della Parte II. Oggi tale passo suonerebbe diversamente sotto molti aspetti. Questo programma è oggi parzialmente invecchiato rispetto all'immenso sviluppo della grande industria negli ultimi venticinque anni e al parallelo progresso dell'organizzazione di partito dei
lavoratori, rispetto alle esperienze pratiche, dapprima della rivoluzione di febbraio e
molto più ancora della Comune di Parigi, quando, per due mesi, il proletariato ha esercitato per la prima volta il potere politico. In particolare, la Comune ha dimostrato che “la classe operaia non può semplicemente prendere possesso dell'apparato statale così com'è e metterlo al servizio dei propri fini" (si veda: La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, dove tale concetto è ulteriormente sviluppato)
(Karl Marx e Friedrich Engels, Prefazione all'edizione tedesca del 1872)

 


 

Il cretinismo parlamentare

… cretinismo parlamentare, infermità che riempie gli sfortunati che ne sono vittime della convinzione solenne che tutto il mondo, la sua storia e il suo avvenire, sono retti e determinati dalla maggioranza dei voti di quel particolare consesso rappresentativo che ha l'onore di annoverarli tra i suoi membri, e che qualsiasi cosa accada fuori delle pareti di questo edificio, - guerre, rivoluzioni, costruzioni di ferrovie, colonizzazione di interi nuovi continenti, scoperta dell'oro di California, canali dell'America centrale, eserciti russi, e tutto quanto ancora può in qualsiasi modo pretendere di esercitare un'influenza sui destini dell'umanità,- non conta nulla in confronto con gli eventi incommensurabili legati all'importante questione, qualunque essa sia, che in quel momento occupa l'attenzione dell'onorevole loro assemblea.
(Articolo scritto per il New York Tribune, luglio 1852. In Rivoluzione e controrivoluzione in Germania)

…quella particolare malattia che a partire dal 1848 ha infierito su tutto il Continente, il cretinismo parlamentare, malattia che relega quelli che ne sono colpiti in un mondo immaginario e toglie loro ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo esteriore...
(Karl Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852, Capitolo V)

 


 

Lo Stato e il regno della finanza

Dopo la rivoluzione di luglio [1830] il banchiere liberale Laffitte, accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all'Hôtel de Ville [Il Municipio di Parigi], lasciava cadere queste parole: "D'ora innanzi regneranno i banchieri". Laffitte aveva tradito il segreto della rivoluzione.

Sotto Luigi Filippo non regnava la borghesia francese, ma una frazione di essa, i banchieri, i re della Borsa, i re delle ferrovie, i proprietari delle miniere di carbone e di ferro e delle foreste, e una parte della proprietà fondiaria venuta con essi a un accordo: la cosiddetta aristocrazia finanziaria. Essa sedeva sul trono, essa dettava leggi nelle Camere, essa distribuiva gli impieghi dello Stato, dal ministero allo spaccio dei tabacchi.
(Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, 1850, I)

 


 

Lo stato e l'aristocrazia finanziaria

Nel suo numero del 29 novembre 1851 l'Economist dichiara, in nome proprio:
"In tutte le Borse d'Europa il Capo dello Stato è riconosciuto come sentinella dell'ordine".
L'aristocrazia finanziaria condannava dunque la lotta parlamentare del partito dell'ordine contro il potere esecutivo come cosa che turbava l'ordine, e celebrava ogni vittoria del Presidente sui rappresentanti del sedicente partito dell'ordine come vittoria dell'ordine. Si deve intendere qui per aristocrazia finanziaria non soltanto i grandi appaltatori di prestiti statali e gli speculatori sui valori dello Stato, il cui interesse si comprende agevolmente che coincida con gli interessi del potere dello Stato. Tutti gli affari finanziari moderni, tutta l'economia bancaria è connessa nel modo più intimo col credito pubblico. Una parte del loro capitale commerciale viene necessariamente investito in valori di Stato rapidamente convertibili. I loro depositi, il capitale posto a loro disposizione e da loro ripartito tra commercianti e industriali, proviene in parte dai dividendi dei possessori di rendita dello Stato. Se per il mercato monetario nel suo complesso e per i sacerdoti di questo mercato la stabilità del potere dello Stato in ogni epoca ha fatto le veci di Mosè e dei profeti, come potrebbe essere diversamente oggi in cui ogni diluvio minaccia di travolgere, insieme ai vecchi Stati, anche i vecchi debiti di Stato?
(Karl Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852, Capitolo VI)

 


 

Il debito statale come interesse diretto della borghesia

L'indebitamento dello Stato era, al contrario, l'interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all'aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull'orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito era una nuova occasione di svaligiare il pubblico, che investe i suoi capitali in rendita dello Stato, mediante operazioni di Borsa al cui segreto erano iniziati il governo e la maggioranza della Camera. In generale la situazione instabile del credito pubblico e il possesso dei segreti di Stato offrivano ai banchieri e ai loro affiliati nelle Camere e sul trono la possibilità di provocare delle oscillazioni straordinarie improvvise, nel corso dei titoli di Stato; e il risultato costante di queste oscillazioni non poteva essere altro che la rovina di una massa di capitalisti più piccoli e l'arricchimento favolosamente rapido dei giocatori in grande. Perché il disavanzo dello Stato era nell'interesse diretto della frazione borghese dominante, si spiega come le spese straordinarie dello Stato negli ultimi anni del governo di Luigi Filippo superassero di molto il doppio delle spese straordinarie dello Stato sotto Napoleone e toccassero quasi la somma annua di 400 milioni di franchi, mentre l'esportazione media complessiva della Francia raggiungeva di rado la somma di 750 milioni di franchi. Le enormi somme che in tal modo passavano per le mani dello Stato davano inoltre l'occasione a contratti di appalto fraudolenti, a corruzioni, a malversazioni, a bricconate d'ogni specie. Lo svaligiamento dello Stato, che si faceva in grande coi prestiti, si ripeteva al minuto nel lavori pubblici. I rapporti tra la Camera e il governo si moltiplicavano sotto forma di rapporti tra amministrazioni singole e singoli imprenditori.
(Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, 1850, I)

Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — prese piede nell'era delle manifatture. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.
Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche fatta astrazione dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna.
(Karl Marx, Il Capitale, 1867, vol. I , cap. XXIV)

 


 

Gli interessi dello stato sono gli interessi della borghesia

Si capisce senz'altro che in un paese come la Francia, in cui il potere esecutivo ha sotto di sé un esercito di più di mezzo milione di funzionari, e dispone quindi continuamente, in modo assoluto, di una massa enorme di interessi e di esistenze; in cui lo Stato, dalle più ampie manifestazioni della vita fino ai movimenti più insignificanti, dalle sue forme di esistenza più generali sino alla vita privata, avvolge la società borghese, la controlla, la regola, la sorveglia e la tiene sotto tutela; in cui questo corpo di parassiti, grazie alla più straordinaria centralizzazione, acquista una onnipresenza, una onniscienza, una più rapida capacità di movimento e un'agilità che trova il suo corrispettivo soltanto nello stato di dipendenza e di impotenza e nell'incoerenza informe del vero corpo sociale, si capisce che in un paese simile l'Assemblea nazionale, insieme alla possibilità di disporre dei posti ministeriali, perdesse ogni influenza reale, a meno che non avesse in pari tempo semplificato l'amministrazione dello Stato, ridotto il più possibile l'esercito degli impiegati, in una parola, fatto in modo che la società civile e l'opinione pubblica si creassero i loro propri organi, indipendenti dal potere governativo. Ma l'interesse materiale della borghesia francese è precisamente legato nel modo più stretto al mantenimento di quella grande e ramificata macchina statale. Qui essa mette a posto la sua popolazione superflua; qui essa completa, sotto forma di stipendi statali, ciò che non può incassare sotto forma di profitti. interessi, rendite e onorari. D'altra parte il suo interesse politico la spingeva ad aumentare di giorno in giorno la repressione, cioè i mezzi e il personale del potere dello Stato. In pari tempo essa doveva condurre una lotta ininterrotta contro l'opinione pubblica, mutilare e paralizzare per diffidenza gli organi autonomi del movimento sociale, e dove ciò non le riusciva, amputarli completamente. Così la borghesia francese era spinta dalla sua stessa situazione di classe, da un lato, ad annientare le condizioni di esistenza di ogni potere parlamentare, e quindi anche dei suo proprio, dall'altro lato a rendere irresistibile il potere esecutivo che le era ostile.
(Karl Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852, Capitolo IV)

 


 

Lo stato come parassita

Questo potere esecutivo, con la sua enorme organizzazione burocratica e militare, col suo meccanismo statale complicato e artificiale, con un esercito di impiegati di mezzo milione accanto a un altro esercito di mezzo milione di soldati, questo spaventoso corpo parassitario che avvolge come un involucro il corpo della società francese e ne ostruisce tutti i pori, si costituì nel periodo della monarchia assoluta, con la decadenza del sistema feudale che ha contribuito ad accelerare. I privilegi signorili della proprietà fondiaria e delle città si trasformarono in altrettanti attributi del potere dello Stato, i dignitari feudali si trasformarono in funzionari stipendiati, e la variopinta collezione dei contraddittori diritti sovrani medioevali divenne il piano ben regolato di un potere dello Stato, il cui lavoro è suddiviso e centralizzato come in un’officina.
(Karl Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852, Capitolo VII)

 


 

Lo stato come macchina per estorcere denaro

I dazi nacquero dai tributi imposti dai signori feudali ai mercanti che attraversavano il loro territorio, come indennizzo per i saccheggi, tributi che più tardi furono ugualmente imposti dalle città e che all’apparizione dello Stato moderno rappresentarono per il fisco il mezzo più a portata di mano per far denaro. Quei provvedimenti acquistarono un altro significato con la comparsa dell’oro e dell’argento americano sui mercati europei, col progressivo sviluppo dell’industria, col rapido slancio del commercio e la conseguente ascesa della borghesia non legata alle corporazioni, e con l’importanza crescente del denaro. Lo Stato, per il quale era ogni giorno più difficile fare a meno del denaro, mantenne per considerazioni fiscali il divieto di esportare l’oro e l’argento; i borghesi, per i quali l’obiettivo principale era di accaparrare queste masse di denaro appena gettate sul mercato, ne erano completamente soddisfatti; i privilegi già esistenti diventarono una fonte di entrate per il governo e furono venduti per denaro; nella legislazione doganale apparvero i dazi di esportazione i quali, non facendo altro che ostacolare l’industria, avevano uno scopo puramente fiscale.
(Karl Marx e Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, 1846, Capitolo III)

L'imposta è la sorgente di vita della burocrazia, dell'esercito, dei preti e della corte, in breve, di tutto l'apparato del potere esecutivo. Governo forte e imposte forti sono la stessa cosa. La piccola proprietà è adatta, per la sua stessa natura, a servire di base a una burocrazia onnipotente e innumerevole. Essa crea su tutta la estensione del paese un livello eguale di rapporti e di persone: permette quindi di agire in egual modo su tutti i punti di questa massa uniforme partendo da un centro supremo. Essa distrugge gli strati aristocratici intermedi tra la massa del popolo e il potere dello Stato: provoca quindi dappertutto l'intervento diretto di questo potere dello Stato e l'ingerenza dei suoi organi diretti. Crea infine una popolazione in soprannumero, senza lavoro, che non trova posto né in campagna né in città, che ricerca quindi gli impieghi dello Stato come una specie di elemosina onorevole e ne provoca la creazione. Aprendo con la baionetta nuovi mercati e saccheggiando il Continente, Napoleone rimborsò ad usura le imposte forzose. Queste imposte erano allora uno stimolo per l'industria del contadino, mentre ora esse privano il contadino delle ultime risorse della sua industria e finiscono per renderlo del tutto impotente di fronte al pauperismo. E una enorme burocrazia, ben gallonata e ben nutrita, è la “ìdée napoléonienne” che maggiormente sorride al secondo Bonaparte. Come potrebbe essere diversamente, dal momento che egli è costretto a dar vita, accanto alle classi reali della società, a una casta artificiale, per la quale il mantenimento del suo regime diventa una questione di pasto quotidiano? Perciò una delle sue prime operazioni finanziarie è consistita nel riportare gli stipendi degli impiegati al loro vecchio livello e nella creazione di nuove sinecure.
(Karl Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852, Capitolo VII)

 


 

Lo stato come sovrastruttura

La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito
umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli Inglesi e dei Francesi del secolo XVIII, sotto il termine di «società civile»; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica (...) Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.
A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.
(Karl Marx, Per la critica dell'economia politica, 1859, Prefazione)

 


 

Lo stato come strumento per l'asservimento dei produttori

Ma la classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla macchina dello stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini. Il potere statale centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura - organi prodotti secondo il piano di divisione del lavoro sistematica e gerarchica - trae la sua origine dai giorni della monarchia assoluta, quando servì alla nascente società delle classi medie come arma potente nella sua lotta contro il feudalesimo. Il suo sviluppo però fu intralciato da ogni sorta di macerie medioevali, diritti signorili, privilegi locali, monopoli municipali e corporativi e costituzioni provinciali. La gigantesca scopa della Rivoluzione francese del secolo decimottavo spazzò tutti questi resti dei tempi passati, sbarazzando così in pari tempo il terreno sociale dagli ultimi ostacoli che si frapponevano alla costituzione di esso dell'edificio dello stato moderno, elevato sotto il I impero, il quale a sua volta fu il prodotto delle guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia moderna. Durante i successivi regimes il governo, posto sotto il controllo parlamentare, cioè sotto il controllo diretto delle classi possidenti, non diventò solamente l'incubatrice di enormi debiti pubblici e di imposte schiaccianti; con la irresistibile forza di attrazione dei posti, dei guadagni e delle protezioni, esso non solo diventò il pomo della discordia tra fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti; ma anche il suo carattere politico cambiò di pari passo con le trasformazioni economiche della società. A misura che il progresso dell'industria moderna sviluppava, allargava, accentuava l'antagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, lo stato assunse sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica organizzata per l'asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe.

Dopo ogni rivoluzione che segnava un passo avanti nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello stato risultava in modo sempre più evidente. La rivoluzione del 1830, che fece passare il potere dai grandi proprietari fondiari ai capitalisti, lo trasferì dai più lontani antagonisti degli operai ai loro antagonisti più ristretti. I borghesi repubblicani che avevano preso il potere statale in nome della rivoluzione di Febbraio, se ne valsero per i massacri di Giugno [1848], allo scopo di convincere la classe operaia che la repubblica "sociale" significava repubblica che assicurava la loro soggezione sociale, e per convincere la massa monarchica della classe borghese e dei grandi proprietari fondiari che poteva tranquillamente lasciare ai borghesi "repubblicani" le cure e gli emolumenti del governo.
(Karl Marx, La guerra civile in Francia, 1871)

Sotto il suo dominio [Luigi Bonaparte e il II Impero], la società borghese, libera da preoccupazioni politiche, raggiunse uno sviluppo che essa stessa non aveva mai sperato; la sua industria e il suo commercio assunsero proporzioni colossali; la truffa finanziaria celebrò orgie cosmopolite; la miseria delle masse fu messa in rilievo da una ostentazione sfacciata di lusso esagerato, immorale, abietto. Il potere dello stato, apparentemente librato al di sopra della società, era esso stesso lo scandalo più grande di questa società e in pari tempo il vero e proprio vivaio di tutta la sua corruzione. La sua decomposizione e la decomposizione della società che esso aveva salvato vennero messe a nudo dalla baionetta prussiana, ben disposta per conto suo a trasferire il centro di gravità di questo regime da Parigi a Berlino. L'imperialismo è la più prostituita e insieme l'ultima forma di quel potere statale che la nascente società della classe media aveva incominciato ad elaborare come strumento della propria emancipazione dal feudalesimo, e che la società borghese in piena maturità aveva alla fine trasformato in strumento per l'asservimento del lavoro al capitale.
(Karl Marx, La guerra civile in Francia, 1871, Capitolo III)

 


 

Lo spauracchio del “socialismo” utilizzato dalla borghesia per imporre lo statismo

Che si trattasse del diritto di petizione o dell'imposta sul vino, della libertà di stampa o della libertà di commercio, dei clubs o della costituzione municipale, della difesa della libertà personale o del regolamento del bilancio, si ritorna sempre alla parola d'ordine, il tema rimane sempre lo stesso, la sentenza è sempre pronta ed è invariabilmente la stessa: "socialismo!". Socialista viene dichiarato persino il liberalismo borghese, socialista la cultura borghese, socialista la riforma finanziaria borghese. Era socialista costruire una ferrovia dove già esisteva un canale, ed era socialista difendersi col bastone, quando si era assaliti con una spada.
(Karl Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852, Capitolo IV)

Tacciando dunque di eresia "socialista" ciò che prima aveva esaltato come "liberale", la borghesia confessa che il suo proprio interesse le impone di sottrarsi al pericolo dell'autogoverno; che per mantenere la calma nel paese deve anzitutto essere ridotto alla calma il suo Parlamento borghese; che per mantenere intatto il suo potere sociale deve essere spezzato il suo potere politico; che i singoli borghesi possono continuare a sfruttare le altre classi e a godere tranquillamente della proprietà, della famiglia, della religione e dell'ordine soltanto a condizione che la loro classe venga condannata a essere uno zero politico al pari di tutte le altre classi; che per salvare la propria borsa essa deve perdere la propria corona, e la spada che la deve proteggere deve in pari tempi pendere come una spada di Damocle sulla propria testa.
(Karl Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852, Capitolo IV)

 


 

La trasformazione-degenerazione del socialismo in statismo

Invece che da un processo di trasformazione rivoluzionaria della società l'"organizzazione socialista del lavoro complessivo" - "sorge" dall' "aiuto dello Stato," [come suggeriva il programma di Gotha che Marx qui critica] che lo Stato dà a cooperative di produzione, che esso, e non l'operaio, "crea." Che si possa costruire con l'aiuto dello Stato una nuova società, come si costruisce una nuova ferrovia, è degno dell'immaginazione di Lassalle.

Il fatto che gli operai vogliono instaurare le condizioni della produzione cooperativa su una scala sociale, e per cominciare nel loro paese, su una scala nazionale, significa soltanto che essi lavorano al rivolgimento delle attuali condizioni di produzione, e non ha niente di comune con la fondazione di società cooperative con l'aiuto dello Stato. Ma, per ciò che riguarda le odierne società cooperative, esse hanno un valore soltanto in quanto sono creazioni operaie indipendenti, non protette né dai governi né dai borghesi.
(Karl Marx, Critica del programma di Gotha, 1875, III)

Stato libero: che cosa è questo?
Non è punto scopo degli operai, che si sono liberati dal gretto spirito di sudditanza, di rendere libero lo Stato. Nel Reich tedesco lo "Stato" è "libero" quasi come in Russia. La libertà, consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa, e anche oggigiorno le forme dello Stato sono più libere o meno libere nella misura in cui limitano la "libertà dello Stato."

Il Partito operaio tedesco - almeno se fa proprio il programma - mostra come in esso non sono penetrate a fondo le idee socialiste; perché, invece di trattare la società presente (e ciò vale anche per ogni società futura) come base dello Stato esistente (e futuro per la futura società), tratta piuttosto lo Stato come un ente indipendente, che ha le sue proprie basi spirituali e morali libere.

E ora veniamo al deplorevole abuso che il programma fa delle parole "Stato odierno" "società odierna" e al manifesto ancora più deplorevole, che esso crea circa lo Stato a cui dirige le sue rivendicazioni!

La "società odierna" è la società capitalistica, che esiste in tutti i paesi civili, più o meno libera di appendici medioevali, più o meno modificata dallo speciale svolgimento storico di ogni paese, più o meno evoluta. Lo "Stato odierno," invece, muta con il confine di ogni paese. Nel Reich tedesco-prussiano esso è diverso che in Svizzera; in Inghilterra è diverso che negli Stati Uniti. "Lo Stato odierno" è dunque una finzione.

Tuttavia i diversi Stati dei diversi paesi civili, malgrado le loro variopinte differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che stanno sul terreno della moderna società borghese, che è soltanto più o meno evoluta dal punto di vista capitalistico. Essi hanno perciò in comune anche alcuni caratteri essenziali. In questo senso si può parlare di uno "Stato odierno," in contrapposto al futuro, in cui la presente radice dello Stato, la società borghese, sarà perita.

Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna.
(Karl Marx, Critica del programma di Gotha, 1875, IV)

È assolutamente da respingere una "educazione del popolo per opera dello Stato."
Piuttosto si debbono ugualmente escludere governo e Chiesa da ogni influenza sulla scuola.
Nel Reich tedesco-prussiano (e non si ricorra alla vana scappatoia di dire che si parla di uno “Stato futuro”; abbiamo visto come stanno le cose a questo riguardo) è lo Stato, al contrario, che ha bisogno di un'assai rude educazione da parte del popolo.

Ma l'intero programma, nonostante tutta la fanfara democratica, è continuamente ammorbato dallo spirito di fede servile nello Stato, proprio della setta lassalliana, o, ciò che non è meglio, dalla fede democratica nei miracoli, o è piuttosto un compromesso tra queste due specie di fede nei miracoli, entrambe ugualmente lontane dal socialismo.
(Karl Marx, Critica del programma di Gotha, 1875, IV)

 


 

Il superamento dello Stato Borghese

Tanto il periodo di grande prosperità nell'industria con la sua illimitata inflazione creditizia, quanto lo stesso crac con la rovina di grandi imprese capitalistiche, spingono a quella forma di socializzazione di masse considerevolmente grandi di mezzi di produzione, che incontriamo nelle diverse specie di società per azioni. Molti di questi mezzi di produzione e di scambio sono sin dal principio così enormi da escludere, come ad es. avviene nelle strade ferrate, ogni altra forma di sfruttamento capitalistico. Ad un certo grado di sviluppo, neanche questa forma è più sufficiente. Ad un certo grado di sviluppo, neanche questa forma è più sufficiente. I grandi produttori nazionali di uno stesso ramo di produzione industriale si riuniscono in un "trust", in un'associazione avente lo scopo di regolare la produzione; essi determinano la quantità totale da produrre, se la ripartiscono tra di loro ed impongono così il prezzo di vendita stabilito in precedenza. Ma poiché tali trust, quando gli affari cominciano ad andar male, per lo più si dissolvono, proprio per questa ragione essi spingono ad una forma ancora più concentrata di socializzazione: tutto il ramo di industria si trasforma in un'unica società anonima; la concorrenza nazionale cede il posto al monopolio nazionale di questa unica società, così accade già nel 1890 con la produzione inglese degli alcali che ora, dopo la fusione di tutte e 48 le grandi fabbriche, viene esercitata da un'unica grande società con direzione unica e con un capitale di 120 milioni di marchi.
Nei trust la libera concorrenza si trasforma in monopolio, la produzione, priva di un piano, della società capitalista capitola davanti alla produzione, secondo un piano, dell'irrompente società socialista. Certo in un primo tempo questo avviene ancora a tutto vantaggio dei capitalisti. Ma qui lo sfruttamento diviene così tangibile da dover necessariamente crollare. Nessun popolo sopporterebbe una produzione diretta da trust, uno sfruttamento così scoperto della collettività per opera di una piccola banda di tagliatori di cedole.
In un modo o nell'altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve* alla fine assumere la direzione. La necessità della trasformazione in proprietà statale si manifesta anzitutto nei grandi organismi di comunicazione: poste, telegrafi, ferrovie.

[*Nota: Io dico: deve. Infatti, solo nel caso in cui i mezzi di produzione o di comunicazione si sono effettivamente sottratti al controllo delle società anonime, in cui quindi la statizzazione è diventata economicamente inevitabile, solo in questo caso essa, anche se viene compiuta dallo Stato attuale, rappresenta un successo economico, il raggiungimento di un nuovo stadio preliminare nella presa di possesso di tutte le forze produttive da parte della società. Di recente però, da quando Bismarck si è dato a statizzare, ha fatto la sua comparsa un certo socialismo falso, e qua e là perfino degenerato in una forma di compiaciuto servilismo, che dichiara senz'altro socialista ogni statizzazione, compresa quella bismarckiana. In verità se la statizzazione del tabacco fosse socialista, potremmo annoverare tra i fondatori del socialismo Napoleone e Metternich. Se lo Stato belga per motivi politici e finanziari assolutamente correnti ha costruito direttamente le sue principali strade ferrate, se Bismarck senza nessuna necessità economica ha statizzato le principali linee ferroviarie della Prussia, semplicemente per poterle dirigere e sfruttare meglio in caso di guerra, per trasformare i ferrovieri in gregge elettorale governativo e principalmente per procurarsi una nuova fonte di entrate indipendente dalle decisioni del parlamento: queste non sono state per nulla misure socialiste né dirette né indirette, né consapevoli né inconsapevoli. Altrimenti sarebbero istituzioni socialiste anche la regia Seehandlung (Società prussiana di commercio marittimo) la regia manifattura delle porcellane e perfino i sarti di reggimento o magari la nazionalizzazione dei bordelli, proposta con tutta serietà da un lestofante nel quarto decennio di questo secolo, sotto Federico Guglielmo III].

Se le crisi hanno rivelato l'incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società anonime e in proprietà statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono oggi compiute da impiegati salariati. Il capitalista non ha più nessuna attività sociale che non sia l'intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in borsa, dove i capitali si spogliano a vicenda dei loro capitali. Se il modo di produzione capitalistico ha cominciato col soppiantare gli operai, oggi esso soppianta i capitalisti e li relega, precisamente come gli operai, tra la popolazione superflua, anche se in un primo tempo non li relega tra l'esercito industriale di riserva.

Ma né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Nelle società anonime questo carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno è l'organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze collettive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all'apice, si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione.

Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in effetti la natura sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo di produzione, di appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il carattere sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la società si impadronisca delle forze produttive le quali si sottraggono ad ogni altra direzione che non sia quella sua. Così il carattere sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti che oggi si volge contro gli stessi produttori, che sconvolge periodicamente il modo di produzione e di scambio e si impone con forza possente e distruttiva solo come cieca legge naturale, viene fatto valere con piena consapevolezza dai produttori e, da causa di turbamento e di sconvolgimento periodico, si trasforma nella più potente leva della produzione stessa.

Le forze socialmente attive agiscono in modo assolutamente uguale alle forze naturali: in maniera cieca, violenta, distruttiva, sino a quando non le riconosciamo e non facciamo i conti con esse. Ma una volta che le abbiamo riconosciute, che ne abbiamo compreso il modo di agire, la direzione e gli effetti, dipende solo da noi il sottometterle sempre più al nostro volere e per mezzo di esse raggiungere i nostri fini. E questo vale in modo tutto particolare per le odierne potenti forze produttive. Fino a quando ostinatamente ci rifiuteremo di intenderne la natura e il carattere, e a questa intelligenza si oppongono il modo di produzione capitalistico e i suoi sostenitori, queste forze agiranno malgrado noi e contro di noi, e, come abbiamo diffusamente esposto, ci domineranno. Ma una volta che siano comprese nella loro natura, esse, nelle mani dei produttori associati, possono essere trasformate da demoniache dominatrici in docili serve. È questa la differenza tra la forza distruttiva dell'elettricità del lampo nella tempesta e l'elettricità domata del telegrafo e della lampada ad arco; la differenza tra l'incendio e il fuoco che agisce al sevizio dell'uomo. Quando le odierne forze produttive saranno considerate in questo modo, conformemente alla loro natura finalmente conosciuta, all'anarchia sociale della produzione subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata della produzione, conforme ai bisogni sia della comunità che di ogni singolo. Così il modo di appropriazione capitalistico, in cui il prodotto asservisce anzitutto chi lo produce, ma poi anche colui che se lo appropria, viene sostituito dal modo di appropriazione dei prodotti fondato sulla natura stessa dei moderni mezzi di produzione: da una parte da un'appropriazione direttamente sociale come mezzo per mantenere ed allargare la produzione, dall'altra da un'appropriazione direttamente individuale come mezzo di sussistenza e di godimento.
(Friedrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, 1880, Parte III)

 


 

L'estinzione dello stato

Mentre i servi della gleba fuggitivi, dunque, volevano soltanto sviluppare e fare affermare liberamente le loro condizioni di esistenza già in atto, e quindi in ultima istanza arrivarono soltanto al lavoro libero, i proletari invece, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro. Essi si trovano quindi anche in antagonismo diretto con la forma nella quale gli individui della società si sono dati finora un’espressione collettiva, lo Stato, e devono spezzare lo Stato per affermare la loro personalità.
(Karl Marx e Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, 1846, Capitolo IV)

Il modo di produzione capitalistico, trasformando in misura sempre crescente la grande maggioranza della popolazione in proletari, crea la forza che, pena la morte, è costretta a compiere questo rivolgimento, spingendo in misura sempre maggiore alla trasformazione dei grandi mezzi di produzione socializzati in proprietà statale, essa stessa mostra la via per il compimento di questo rivolgimento. Il proletariato si impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Ma così sopprime se stesso come proletariato, sopprime ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo Stato come Stato. La società esistita sinora, che si muove sul piano degli antagonismi di classe, aveva necessità dello Stato, cioè dell'organizzazione della classe sfruttatrice in ogni periodo, per conservare le condizioni esterne della sua produzione e quindi specialmente per tener con la forza la classe sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente di produzione (schiavitù, servitù della gleba o semiservitù feudale, lavoro salariato). Lo Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società, la sua sintesi in un corpo visibile, ma lo era in quanto era lo Stato di quella classe che per il suo tempo rappresentava, essa stessa, tutta quanta la società: nell'antichità era lo Stato dei cittadini padroni di schiavi, nel medioevo lo Stato della nobiltà feudale, nel nostro tempo lo Stato della borghesia. Ma, diventando alla fine effettivamente il rappresentante di tutta la società, si rende, esso stesso, superfluo. Non appena non ci sono più classi sociali da mantenere nell'oppressione, non appena con l'eliminazione del dominio di classe e della lotta per l'esistenza individuale fondata sull'anarchia della produzione sinora esistente, saranno eliminati anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da tutto ciò, non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva necessaria una forza repressiva particolare, uno Stato. Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l'ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L'intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo stato non viene "abolito": esso si estingue.
(Friedrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, 1880)

 


 

La Comune di Parigi e lo Stato Borghese

La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al potere, non può continuare a governare la vecchia macchina dello Stato, che la classe operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare tutta la vecchia macchina repressiva già sfruttata contro di essa, e dall'altra deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli senza nessuna eccezione e in ogni momento revocabili. In che cosa consisteva sino allora la proprietà caratteristica dello Stato? La società, per la tutela dei propri interessi comuni, si era provveduta di organi propri, originariamente per mezzo di una semplice divisione di lavoro. Ma questi organi, alla cui testa è il potere dello Stato, si erano col tempo trasformati, al servizio dei propri interessi speciali, da servitori della società in padroni della medesima. Il che per esempio è evidente non solo nella monarchia ereditaria, ma anche nella repubblica democratica. In nessun paese i "politici" formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell'America del nord. Ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene alla sua volta governato da gente per cui la politica è una professione, che specula tanto sui seggi nelle assemblee legislative dell'Unione quanto su quelli dei singoli Stati, o che per lo meno vive dell'agitazione per il suo partito e dopo la sua vittoria viene compensata con dei posti.
È noto come gli americani tentano da trent'anni di scuotere questo giogo diventato insopportabile e come, a dispetto di ciò, affondano sempre più profondamente nella palude di questa corruzione. Proprio in America possiamo vedere nel miglior modo come si compia questa separazione e contrapposizione del potere dello Stato alla società, di cui in origine esso era destinato a non essere altro che uno strumento. Qui non esiste dinastia, non nobiltà, non esercito permanente all'infuori di un manipolo d'uomini per la vigilanza degli indiani, non burocrazia con impiego stabile e con diritto a pensione. E con tutto questo, abbiamo qui due grandi bande di speculatori politici che alternativamente entrano in possesso del potere, e lo sfruttano coi mezzi più corrotti e ai più corrotti scopi; e la nazione è impotente contro queste due grandi bande di politici, che apparentemente sono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano.

Contro questa trasformazione, in tutti gli Stati finora inevitabile, dello Stato e degli organi dello Stato da servitori della società in padroni della società, la Comune applicò due mezzi infallibili. In primo luogo, assegnò per via di elezione, con diritto generale di voto da parte degli interessati, e col diritto costante di revoca da parte di questi stessi interessati, tutti gli impieghi, amministrativi, giudiziari, educativi. In secondo luogo, per tutti i servizi, alti e bassi, pagava solo lo stipendio che ricevevano gli altri operai. Il più alto assegno che essa pagava era di 6.000 franchi. In questo modo era posto un freno sicuro alla caccia agli impieghi e al carrierismo, anche senza i mandati imperativi per i delegati ai Corpi rappresentativi, che furono aggiunti per soprappiù.
(Friedrich Engels, Introduzione all'Edizione Tedesca de La Guerra civile in Francia, 1891)

… in Germania la superstizione dello Stato si è trasportata dalla filosofia nella coscienza generale della borghesia e perfino di molti operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato è la "realizzazione dell'Idea", ovvero il regno di Dio in terra tradotto in linguaggio filosofico, il campo nel quale la verità e la giustizia eterna si realizza o si deve realizzare. Di qui una superstiziosa idolatria dello Stato e di tutto ciò che ha relazione con lo Stato, idolatria che si fa strada tanto più facilmente in quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari e gli interessi comuni a tutta la società non possano venir curati altrimenti che come sono stati curati fino ad ora, cioè per mezzo dello Stato e dei suoi bene istallati funzionari. E si crede d'aver già fatto un passo estremamente audace, quando ci si è liberati alla fede nella monarchia ereditaria e si giura nella repubblica democratica. In realtà però lo Stato non è che una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'altra, e ciò nella repubblica democratica non meno che nella monarchia; e nel migliore dei casi un male che viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vittorioso nella lotta per il predominio di classe e i cui lati peggiori non potrà fare a meno, subito, di eliminare nella misura del possibile, come fece la Comune, finché una nuova generazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il vecchiume dello Stato.
(Friedrich Engels, Introduzione all'Edizione Tedesca de La Guerra civile in Francia, 1891)

 


 

Oltre lo stato

Lo Stato dunque non è affatto una potenza imposta alla società dall'esterno e nemmeno "la realtà dell'idea etica" come afferma Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto, § 257 e § 360).
Esso è piuttosto un prodotto della società giunta ad un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con sé stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente ad eliminare. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto non distruggano sé stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell'«ordine»; e questa potenza che emana dalla società ma che si pone al di sopra di essa, e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato.

Lo Stato, poiché è sorto dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di mantenere sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu l'organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi o vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale. Eccezionalmente tuttavia, vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché uguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe. Così la monarchia assoluta dei secoli XVII e XVIII che mantenne l'equilibrio tra nobiltà e borghesia; così il bonapartismo del primo e specialmente del secondo impero francese che si valse del proletariato contro la borghesia e della borghesia contro il proletariato. L'ultimo prodotto del genere, in cui dominatori e dominati appaiono ugualmente comici, è il nuovo impero tedesco di nazione bismarckiana: qui si mantiene l'equilibrio tra capitalisti e operai truffandoli entrambi a tutto vantaggio dei decaduti signorotti terrieri della Prussia.

Lo Stato non esiste dunque dall'eternità. Vi sono state società che ne hanno fatto a meno e che non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale. In un determinato grado dello sviluppo economico necessariamente legato alla divisione della società in classi, proprio a causa di questa divisione lo Stato è diventato una necessità. Ci avviciniamo ora, a rapidi passi, ad uno stadio di sviluppo della produzione nella quale l'esistenza di queste classi non solo ha cessato di essere una necessità ma diventa un ostacolo effettivo alla produzione. Perciò esse cadranno così ineluttabilmente come sono sorte. Con esse cadrà ineluttabilmente lo Stato. La società che riorganizza la produzione in base ad una libera ed eguale associazione di produttori, consegna l'intera macchina statale nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di bronzo.
(Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà e dello stato, 1884)

 


 

Riferimenti

(1844) Karl Marx, Glosse marginali di critica all'articolo : Il re di Prussia e la riforma sociale
(1844) Karl Marx, La questione ebraica
(1845) Karl Marx - Friedrich Engels, La sacra famiglia
(1846) Karl Marx - Friedrich Engels, L’ideologia tedesca
(1847) Karl Marx, Miseria della filosofia
(1848) Karl Marx - Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista
(1850) Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850
(1852) Karl Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte
(1851-1852) Friedrich Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania
(1859) Karl Marx, Per la critica dell'economia politica
(1867) Karl Marx, Il Capitale, Volume I
(1871) Karl Marx, La guerra civile in Francia
(1872) Karl Marx - Friedrich Engels, Prefazione all'edizione tedesca del Manifesto del Partito Comunista
(1875) Karl Marx, Critica del programma di Gotha
(1880) Friedrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza
(1884) Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà e dello stato
(1891) Friedrich Engels, Introduzione all'Edizione Tedesca de La Guerra civile in Francia

 


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