Enrico Barone

Il ministro della produzione nello stato collettivista

(1908)

 



Nota

Si presentano qui i brani finali del saggio di Enrico Barone sulla praticabilità teorica di un sistema economico pianificato dal centro. In maniera molto sintetica egli anticipa le conclusioni a cui arriverà von Mises nel suo saggio sul socialismo (Die Gemeinwirthschaft) pubblicato nel 1922. Anche Barone pone l’accento sulla impossibilità di un sistema di prezzi che assicuri la messa in atto dei migliori coefficienti di produzione in assenza del meccanismo degli scambi liberi e della sperimentazione produttiva. La cosiddetta “anarchia della produzione” che per i dirigisti è il segno del fallimento della "mano invisibile" in quanto porta a un continuo sommovimento della produzione e dei processi produttivi è invece, per Barone, il requisito indispensabile perché possano emergere di continuo i coefficienti di produzione più efficienti. Per cui, per “gestire” l’economia in vista del massimo risultato collettivo il ministro della produzione dello stato collettivista non può fare altro che utilizzare le stesse categorie del sistema di libero scambio che egli dovrebbe sostituire. A meno di non attuare un sistema economico caratterizzato da una altissima inefficienza nella allocazione dei fattori di produzione. E questo è quello che si è puntualmente verificato nel corso del XX secolo in tutti i fenomeni di economia dirigista.

 


 

Molti degli scrittori che hanno confutato il collettivismo, si sono indugiati a mettere in evidenza le difficoltà pratiche di stabilire, a tavolino, diremo così, le varie equivalenze; ma non ci sembra abbiano colto in che, veramente, stia la difficoltà - o meglio l'impossibilità addirittura - di risolvere tali equazioni a priori.

Se noi, per un momento, supponiamo di trascurare la variabilità economica dei coefficienti di fabbricazione e di tener conto della sola loro variabilità tecnica, non è impossibile risolvere a tavolino le equazioni dell'equilibrio. Ci vorrà un lavoro enorme, gigantesco (lavoro perciò sottratto ai servizi produttori): ma non v'e impossibilità.

Si concepisce, infatti, che con una vasta organizzazione di questo lavoro, si possa riuscire a raccogliere le schede individuali per ogni serie data a caso delle varie equivalenze, compreso il premio pel consumo differito. E quindi non è punto inconcepibile che raccolte queste schede - sempre supponendo noti e invariabili i coefficienti di fabbricazione - si possa riuscire, per calcolo, a tavolino, a trovare una serie di equivalenze, le quali soddisfacciano le equazioni esprimenti le necessità fisiche della produzione ed esprimenti le eguaglianze fra costi di produzione ed equivalenze, che sono poi i prezzi. Difficoltà analitiche non ve ne sono: si tratta di semplicissime equazioni lineari: la difficoltà deriva bensì dal numero grandissimo degli individui e dei beni di cui si deve tener conto: ma non e inconcepibile che, sia pure con un enorme, immenso lavoro, tale difficoltà possa essere superata.

Ma ciò che è inconcepibile addirittura si possa fare a priori, è la determinazione economica dei coefficienti di fabbricazione, in guisa da soddisfare la condizione del minimo costo di produzione, la quale costituisce una condizione essenziale pel conseguimento di quel certo massimo. Questa variabilità economica dei coefficienti di fabbricazione è trascurata affatto dai collettivisti, mentre è uno dei lati più importanti della quistione, come ha luminosamente già dimostrato Pareto con uno dei suoi tanti geniali contributi alla scienza.

La determinazione dei coefficienti economicamente più vantaggiosi non si può fare che in via sperimentale: e non in piccola scala, come si farebbe in un laboratorio; ma con esperimenti su vastissima scala, perché spesso il vantaggio della variazione ha la sua origine appunto in una nuova, più grande dimensione dell'impresa; esperimenti che potranno riuscire favorevoli, nel senso che si constati condurre quel certo organamento ad un costo più basso, od anche non favorevoli, per il che convenga che quell'organamento non sia copiato e ripetuto e ad esso si preferiscano altri, che sperimentalmente hanno dato miglior risultato.

Di codesti esperimenti per la determinazione dei coefficienti di fabbricazione economicamente più vantaggiosi, il ministro della produzione non potrà fare a meno se vorrà realizzare la condizione del minimo costo di produzione, essenziale pel conseguimento del massimo benessere collettivo.

È per questo, ed essenzialmente per questo, che le equazioni dell'equilibrio col massimo collettivo non sono solubili a priori, a tavolino, per continuare ad esprimerci così.

E quindi, allorché alcuni scrittori collettivisti, rimpiangendo le distruzioni di imprese (quelle a più alto costo) che continuamente fa la libera concorrenza, pensano che si possa evitare di creare imprese per poi distruggerle, e sperano che con la produzione organizzata si possano risparmiare gli sperperi e le distruzioni di ricchezza che tali esperimenti traggon seco, e che essi credono propri della produzione « anarchica »; codesti scrittori con ciò dimostrano semplicemente di non aver punto un'idea chiara di che cosa sia la produzione, e di non essersi mai accinti allo studio, un po' a fondo, del problema che incomberà al ministro che vi sarà preposto nello stato collettivista.

Il quale ministro, ripetiamo, se non vorrà rimaner legato a coefficienti di fabbricazione tradizionali, che cagionerebbero una distruzione di ricchezza in altro senso - nel senso di maggior ricchezza che si potrebbe conseguire e non si consegue - non ha alcun modo di determinare a priori i coefficienti di fabbricazione più vantaggiosi economicamente, e deve, di necessità, ricorrere ad esperimenti su larga scala per poi decidere quali siano gli organamenti più vantaggiosi, che conviene conservare in vita e diffondere, per meglio conseguire il massimo collettivo, e quali, invece, conviene di scartare e di considerare come falliti.

* * *

Conclusioni. Da ciò che abbiamo visto e dimostrato finora, si scorge all’evidenza quanto siano fantastiche quelle dottrine che sognano nel regime collettivista una produzione ordinata in modo sostanzialmente diverso da quello che è la produzione « anarchica ».

Se il ministro della produzione si propone di conseguire il  massimo collettivo - il che, evidentemente, occorre che egli faccia, quale che sia la legge di distribuzione adottata - si vedono ricomparire nel nuovo regime, sia pure con altro nome, tutte le categorie economiche del regime antico: prezzi, salari, interessi, rendita, profitto, risparmio, ecc. Non solo: ma, dato sempre che con i servizi di cui gli individui e la comunità dispongono, si voglia conseguire quel massimo, si vedono ricomparire quelle medesime due leggi fondamentali che caratterizzano la libera concorrenza, e che sono tanto meglio realizzate quanto più questa è perfetta: cioè costo di produzione minimo e prezzo eguale al costo di produzione.

Il che si sarebbe potuto intendere, a prima vista, con una considerazione sintetica, la quale però non acquista valore di verità dimostrata, se non assoggettando il fenomeno ad una minuta analisi quantitativa, come abbiamo fatto nelle pagine precedenti. E la considerazione è questa: appropriare alcuni capitali allo Stato e distribuire poi il loro frutto agli individui, secondo una certa legge, quale che sia, è come partire da una situazione del regime individualista, in cui gli individui, oltre che dei capitali propri, siano possessori di altrettante quote dei capitali di cui lo Stato è divenuto proprietario, quote rispondenti a quella medesima legge di distribuzione che si suppone adottata.

E in tale situazione quali sono i coefficienti di fabbricazione e quale il sistema di equivalenze che permettono di conseguire il massimo? Quelli che rendono il prezzo eguale al costo di produzione, ed il costo di produzione minimo.

Quel termine supplementare distribuito agli individui - quale che sia la legge di distribuzione - non fa aumentare, come abbiamo visto, i consumi di prodotti e di servizi consumabili del gruppo, di tutto il reddito che nell'antico regime percepivano i possessori dei capitali appropriati dallo Stato nel regime nuovo, quando anche questa appropriazione sia avvenuta senza impegno di compenso alcuno agli espropriati. I consumi di prodotti e di servizi consumabili nel gruppo, quando non si voglia restringere il risparmio e la creazione di capitali nuovi in misura più modesta che nel vecchio regime - e di ciò diremo tra poco - non possono evidentemente nel regime nuovo che essere nel complesso quelli di prima presso a poco.

E quindi, dato che alla creazione di capitali nuovi non si voglia imporre un arresto nel nuovo regime, la distribuzione in più di prodotti e di servizi consumabili fra i consociati non può che essere ristretta nei limiti di ciò che nell'antico regime i proprietari di capitali, ora collettivi, non già percepivano come reddito, ma consumavano. E questo senza tener conto di ciò che bisognerà pur dare, per farlo vivere, a tutto l'esercito di coloro che, dato praticamente possibile il sistema, saranno sottratti alla produzione per collaborare col ministro in un accentramento così laborioso e colossale.

Si potrà, se si vuole, aumentare il consumo dei consociati; a spese però della formazione di capitali nuovi. Ma di tutti i capitali nuovi; quindi anche a spese della procreazione di nuovi esseri umani. Promettere un maggior benessere, proporsi di « organizzare » la produzione e predicare il libero amore nel nuovo regime, è semplicemente un grossolano non senso. L'accumulazione del risparmio, se non si vuole che il massimo collettivo decresca rapidamente nel tempo, dev'essere ragguagliata all'intensità della procreazione; o - ciò che torna lo stesso - questa dev'essere frenata nei limiti di quella.

 


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