Isabel Paterson

L’operatore umanitario con la ghigliottina

(1943)

 


 

Nota

Questo scritto costituisce una delle migliori riflessioni sulla, sfortunatamente, contro-intuitiva realtà della storia condensata nella frase: “la strada verso l'inferno è lastricata di buone intenzioni.” Frédéric Bastiat ha definito questo atteggiamento malsano “il dispotismo filantropico.” (La legge, 1850).
È quindi un dato increscioso, dovuto forse al comportamento di troppi individui ingenui e poco riflessivi, il fatto che esistano persone che, presentandosi come motivate dalle migliori intenzioni, hanno ancora buon gioco nello smerciare le loro cianfrusaglie fatte di illusioni nocive e di inganni costosi. E fino a quando queste persone prevarranno, l'inferno sarà costantemente riprodotto sulla terra da cosiddetti operatori umanitari, che non indietreggeranno di fronte a nulla pur di imporre a tutti la loro versione di “Paradiso”, che lo si voglia o no.

Fonte: Isabel Paterson, The Humanitarian with the Guillotine. Questo saggio è contenuto nel libro della Paterson, “The God of the Machine”, 1943.

 


 

La maggior parte del male che esiste al mondo è opera di persone ben intenzionate, e non avviene in maniera accidentale, per errore o omissione. È il risultato di azioni deliberate, continuate nel tempo, che la persona sostiene di compiere essendo motivata da alti ideali, in vista di nobili fini. [1]

Questo è vero in maniera evidente, né potrebbe essere altrimenti. La percentuale di persone decisamente malevoli, immorali, depravate, è necessariamente esigua, dal momento che nessuna specie potrebbe sopravvivere se i suoi membri fossero abitualmente e consapevolmente intenti a farsi del male l’un l’altro. Distruggere è così facile che persino una minoranza intenta a persistere nel fare il male potrebbe, in breve tempo, sterminare la maggioranza inconsapevole composta da persone ben intenzionate. L’assassinio, il furto, la rapina e la distruzione sono atti che ogni individuo potrebbe facilmente commettere in qualsiasi momento. Se si presume che tali atti siano limitati solo dalla paura o dall’uso della forza, di cosa si avrebbe paura, o chi impiegherebbe la forza contro i perpetratori di tali atti se tutti gli esseri umani fossero disposti alla violenza?

Di certo, se il male fatto da criminali intenzionali fosse statisticamente annotato, vale a dire il numero di omicidi e la quantità di danni e di perdite, esso risulterebbe trascurabile in confronto alla somma totale di delitti e devastazioni commessi dagli esseri umani per mano di altri esseri umani. Perciò è ovvio che, in epoche in cui milioni di persone sono massacrate, quando si fa uso della tortura, la carestia è imposta espressamente, l’oppressione è pratica politica, come avviene attualmente in molte parti del mondo, e come è avvenuto assai spesso in passato, tutto ciò deve per forza verificarsi per volere di moltissimi individui perbene, e addirittura attraverso il loro intervento diretto, per conseguire quello che essi considerano un degno obiettivo. Quando costoro non sono gli esecutori diretti, risultano essere coloro che approvano, elaborano, giustificano o, altrimenti, avvolgono i fatti in un velo di silenzio, e scoraggiano qualsiasi discussione.

È ovvio che questo non può avvenire senza una qualche causa o motivo. E va inteso che, con l'espressione utilizzata più sopra, per individui ben intenzionati intendiamo far riferimento a soggetti perbene che mai intenderebbero fare del male intenzionalmente al resto dell’umanità, né per capriccio né per il loro proprio vantaggio. I soggetti perbene si augurano il meglio per i propri simili, e vorrebbero agire in accordo con tale desiderio. Inoltre, non riteniamo neanche che avvenga una “trasformazione dei valori” che porta a confondere il bene con il male, o suggerire che il bene produca il male, o che non vi sia alcuna differenza tra il bene e il male, o tra persone benevole e malevole; né si vuole sostenere che le virtù delle persone perbene non siano davvero delle virtù.

Quindi, ci deve essere una grave falla nei mezzi attraverso i quali questi individui cercano di conseguire i loro fini. Ci deve essere persino un errore negli assiomi in base ai quali costoro insistono a impiegare tali mezzi. Ci deve essere qualcosa di terribilmente sbagliato, da qualche parte, in questo modo di procedere.

Di cosa si tratta?

Di certo, i massacri commessi di tanto in tanto dai barbari che invadono regioni abitate, o i capricci crudeli di ben noti tiranni, non coprirebbero un decimo degli orrori perpetrati da governanti mossi da buone intenzioni.

Come ci insegna la storia, gli antichi Egizi erano resi schiavi dai faraoni attraverso uno schema illuminato avente come obiettivo il “rifornimento costante dei granai”. Si prendevano misure appropriate per evitare le carestie. Per questo il popolo era costretto a barattare proprietà e libertà per garantirsi tali riserve, che erano il risultato di risorse prese da quanto essi avevano prodotto.

La disumana spietatezza degli antichi Spartani era praticata come un ideale civico di virtù.

I primi Cristiani erano perseguitati per ragione di stato, e cioè per il bene pubblico. Ed essi opponevano resistenza rivendicando i diritti della persona, in quanto ognuno aveva un’anima. Coloro che furono uccisi da Nerone per divertimento erano un numero esiguo rispetto a coloro che furono mandati a morire dai successivi imperatori per motivi strettamente “morali”. Gilles de Retz, che ammazzava bambini per soddisfare le sue perversioni bestiali, non ne ha uccisi più di cinquanta o sessanta in tutto. Oliver Cromwell invece ha ordinato, in una sola volta, il massacro di trentamila persone, inclusi bambini nelle braccia delle madri, in nome della giustizia. Anche le brutalità compiute da Pietro il Grande erano commesse con il pretesto di fare il bene dei suoi sudditi.

L’attuale guerra [la Seconda Guerra Mondiale], iniziata con la firma di un trattato stipulato disonestamente da due potenti nazioni (Russia e Germania) e finalizzato a schiacciare impunemente i popoli vicini, trattato che è stato poi infranto con un attacco a sorpresa da parte di uno dei due cospiratori, questa guerra sarebbe stata impossibile in assenza del potere politico all’interno di ciascun paese, potere ottenuto, in entrambi i casi, adducendo la scusa di fare il bene della nazione.

Le menzogne, la violenza, gli eccidi, sono stati praticati dapprima sulle popolazioni di entrambe le nazioni dai loro rispettivi governi.

Si potrebbe dire, e potrebbe essere vero, che in entrambi i casi i detentori del potere sono degli ipocriti privi di moralità; che le loro finalità oggettive erano malvagie fin dall’inizio. Nonostante ciò, essi non sarebbero potuti arrivare al potere se non con il consenso e l’appoggio delle persone perbene.

Il regime comunista in Russia ha ottenuto il controllo promettendo ai contadini la terra, in una forma che, coloro che promettevano ciò, sapevano essere una colossale bugia. Una volta preso il potere, i comunisti hanno espropriato ai contadini proprietari la loro terra, e hanno sterminato chiunque opponesse resistenza. Questo fu fatto metodicamente e intenzionalmente, e la colossale bugia fu apprezzata come “ingegneria sociale” da ammiratori socialisti in America. Se questa è ingegneria, lo è pure la vendita di azioni di giacimenti minerari inesistenti.

L’intera popolazione della Russia fu sottoposta a violenza e a terrore; migliaia di persone furono assassinate senza processo; milioni morirono di stenti e di fame in carcere. In maniera simile, l’intera popolazione della Germania fu soggetta a violenza e a terrore, utilizzando gli stessi mezzi. A seguito della guerra, i Russi nei campi di prigionia tedeschi, e i Tedeschi nei campi di prigionia russi, stanno subendo una sorte né peggiore né differente di quella che un gran numero dei loro compatrioti ha sopportato e sta sopportando per mano dei propri governi, all’interno dei propri paesi. Se vi è una piccola differenza, allora si può ben affermare che essi soffrono meno per le ritorsioni di un nemico riconosciuto che per la proclamata benevolenza dei propri compatrioti. Le nazioni vinte in Europa, sotto il tallone russo o tedesco, stanno solo sperimentando quello che Russi e Tedeschi hanno provato nel corso degli anni, sotto i loro regimi nazionali.

Va inoltre aggiunto che le principali figure politiche che sono al potere in Europa, inclusi coloro che hanno venduto il loro paese all’invasore, sono socialisti, ex-socialisti, o comunisti. Uomini il cui credo era il bene collettivo.

Chiarito tutto ciò fino in fondo, assistiamo allo spettacolo bizzarro dell’uomo che ha condannato alla fame milioni di persone del suo stesso popolo, ammirato da filantropi il cui scopo dichiarato è far sì che ogni persona al mondo possa contare su un litro di latte [2]. Un professionista nel campo dell’assistenza ha trasvolato mezzo mondo per ottenere una intervista con un maestro nell'arte dello sterminio, per poi scrivere rapsodie sul fatto di aver ottenuto un tale privilegio. Al fine di mantenersi in sella, con lo scopo professato di fare del bene, simili idealisti accolgono calorosamente l’appoggio politico di accaparratori, sfruttatori dichiarati, banditi di professione. L’affinità tra questi tipi di persone si mostra chiaramente alla prima occasione.

Ma quale è l’occasione?

Come è stato possibile che la filosofia umanitaria del secolo diciottesimo in Europa abbia portato al Regno del Terrore? Questo non è avvenuto per caso; è scaturito dalle premesse, dagli obiettivi e dai mezzi proposti fin dall’inizio. L’obiettivo è di fare il bene agli altri come giustificazione primaria dell’esistere; il mezzo è il potere della massa; e la premessa è che il “bene” è collettivo.

La radice del problema è di ordine etico, filosofico e religioso, coinvolgendo il rapporto tra l’essere umano e l’universo, tra le facoltà creative dell’individuo e il suo Creatore. La deviazione fatale avviene perché non si riconosce la norma che sovraintende all’umana esistenza.

È ovvio che c’è una grande quantità di pene e di afflizioni intrinseche al vivere. La povertà, la malattia e gli incidenti sono evenienze che possono essere ridotte al minimo ma non certo eliminate del tutto dai rischi a cui va incontro l’essere umano. Ma non sono situazioni desiderabili da produrre o perpetuare.

I bambini hanno di solito dei genitori che si occupano di loro, e la maggior parte degli individui adulti sono in buona salute nel corso di gran parte della loro esistenza, e sono impegnati in attività utili che apportano loro i mezzi per vivere. Questa è la norma e l’ordine naturale. Le sventure sono fatti marginali. Possono essere alleviate prendendo dal sovrappiù di beni prodotti; in caso contrario, nulla può essere fatto. Perciò non si può supporre che il produttore esista solo per il bene del non-produttore; colui che è in buona salute per il bene di chi è malato; la persona competente per il bene dell’incompetente; né che una qualsiasi persona esista semplicemente per il bene di un’altra. (Se si sostiene che una qualsiasi persona esiste solo per il bene di un’altra, allora, secondo logica, si dovrebbe accettare ciò che avveniva in società semi-barbare, quando la vedova o i compagni di un morto erano sepolti vivi assieme a lui nella tomba).

Le grandi religioni, che erano anche grandi sistemi intellettuali, hanno riconosciuto sempre le condizioni dell’ordine naturale. Esse invitavano alla carità, alla benevolenza, come obblighi morali da compiere prendendo dal sovrappiù prodotto. Esse ritenevano ciò un fatto subordinato alla produzione, in quanto, inevitabilmente, senza beni prodotti non vi è nulla che possa essere dato. Di conseguenza, le religioni fissavano regole molto severe, basate sulla volontarietà delle offerte, per coloro che volessero dedicare completamente la loro vita a opere di carità. Questa è stata sempre vista come una vocazione speciale, perché non poteva essere considerata un modo di vita generale. Dal momento che colui che si dedica a distribuire le risorse derivanti dalla carità deve ottenere i fondi o beni da coloro che li producono, egli non ha alcuna pretesa da imporre, ma solo semplici richieste. Quando costui toglie dalle risorse raccolte i mezzi per la sua propria esistenza, questi non devono andare oltre il minimo vitale. Come prova della sua vocazione, deve persino abbandonare la felicità di una vita in famiglia, qualora abbracciasse un ordine religioso. In nessun caso avrebbe dovuto ricavare per sé un benessere derivante dall’altrui miseria.

Gli ordini religiosi hanno fondato e gestito ospedali, allevato orfani, distribuito cibo. Una parte delle risorse caritatevoli era offerta incondizionatamente, per far sì che non vi fosse alcun obbligo in cambio dell’assistenza. Non è moralmente giusto che una persona si spogli della sua dignità per ottenere un pezzo di pane. Questa è la vera differenza quando la carità è compiuta in nome di Dio, e non sulla base di principi umanitari o filantropici. Se i malati fossero curati, gli affamati nutriti, gli orfani accolti fino ad una certa età, questa sarebbe certamente opera buona, e il bene non può essere calcolato in termini puramente materiali. Va comunque notato che l’obiettivo di queste azioni è quello di aiutare a superare un periodo di difficoltà e, se possibile, rimettere la persona beneficiata sulle sue gambe. Se costui poteva, in parte, farcela da solo, tanto meglio, se no, si prendeva in considerazione il caso particolare. La maggior parte degli ordini religiosi si è impegnata anche nella produzione, in modo da distribuire risorse prese dal proprio sovrappiù di beni, oltre che dalle donazioni. Quando essi hanno effettuato attività produttive, come erigere costruzioni, insegnare in cambio di una retta ragionevole, coltivare i campi, o facendo lavori di artigianato, i risultati sono stati duraturi, non solo attraverso i beni particolari prodotti, ma anche attraverso l’ampliamento delle conoscenze e dei metodi di produzione, di modo che, nel lungo periodo, hanno innalzato il livello del benessere. E va notato che questi risultati duraturi sono derivati da un processo di miglioramento personale.

Che cosa può fare un essere umano per un altro essere umano? Egli può dare prendendo dai suoi fondi e dal suo tempo tutto ciò che ha risparmiato. Ma non può trasmettere facoltà che non possiede, né dare ad altri quanto gli serve per vivere senza diventare egli stesso una persona bisognosa di aiuto. Prima di dare, egli deve guadagnare quello che dà. Di certo questa persona ha diritto ad una vita familiare se può mantenere una moglie e dei figli. Deve quindi conservare abbastanza risorse per sé e per la sua famiglia in modo da continuare a produrre. Nessuno, anche se il suo reddito fosse astronomico, può prendersi cura di ogni persona bisognosa al mondo.

Ma, supponiamo che un individuo non abbia risorse sue proprie, e nonostante ciò creda che egli può fare “dell’aiuto agli altri” lo scopo principale e la sua pratica di vita quotidiana. Questa è in sostanza la dottrina del credo umanitario. Come procederebbe allora? Elenchi sono stati pubblicati con i casi delle persone più bisognose, certificati da fondazioni caritatevoli laiche che pagano molto bene i propri funzionari. I bisognosi sono stati individuati ma non ancora aiutati. Per prima cosa i funzionari si pagano uno stipendio prendendo dalla somma delle donazioni ricevute. Questo è motivo di imbarazzo persino per la corazza robusta del filantropo di professione. Ma come si può evitare di ammettere ciò? Se il filantropo potesse avere il controllo integrale sulle risorse del produttore, invece di chiederne una parte, egli potrebbe affermare che la produzione è opera sua, essendo nella condizione di dare ordini al produttore. Allora potrebbe prendersela con il produttore rimproverandogli di non ottemperare agli ordini di produrre di più.

Se l’obiettivo primario del filantropo, la sua giustificazione per vivere, è quella di aiutare gli altri, allora l’attuazione del bene come suo fine ultimo esige che altri siano in situazione di bisogno. La sua felicità è il rovescio della medaglia dell’altrui miseria. Se egli volesse aiutare “l’umanità”, l’umanità tutta dovrebbe essere in stato di bisogno. L’umanitario vorrebbe essere il motore principale nella vita degli altri. Non può ammettere l’esistenza di un ordine divino o naturale, per il quale le persone hanno la forza di aiutare sé stesse. L’umanitario pone sé stesso al posto di Dio.

Ma è confrontato con due fatti strani. Il primo è che le persone competenti non hanno bisogno del suo aiuto; e il secondo, che la maggioranza delle persone, qualora non manipolate e alienate, di certo non vogliono che l’umanitario “si occupi” del loro bene. Quando si dice che ognuno dovrebbe vivere principalmente per gli altri, quale specifico tracciato di vita bisognerebbe seguire? Deve ogni persona fare esattamente quello che l’altro vuole che egli faccia, senza limiti o riserve, e proprio soltanto quello che altri vogliono che egli faccia? E cosa accade se persone differenti esprimono comportamenti in conflitto tra di loro? Lo schema è impraticabile.

Forse la persona dovrebbe fare solo quello che è davvero “bene” per gli altri. Ma questi altri sanno davvero quello che è bene per loro? No, anche questo è da eliminare in quanto si incorre nello stesso problema irrisolvibile. Allora A dovrebbe fare quello che ritiene sia bene per B, e viceversa? Oppure A dovrebbe accettare solo quello che ritiene sia bene per B, e viceversa? Ma questo è semplicemente assurdo. Di certo, ciò che l’umanitario propone, in realtà, è di fare quello che egli ritiene sia il bene per tutti. È a questo punto che l’umanitario mette in funzione la ghigliottina.

Che tipo di mondo immagina l’operatore umanitario che gli consente di realizzare pienamente i suoi obiettivi? Potrebbe essere solo un mondo fatto di persone che fanno la fila per il pane e di ospedali per ricoverare i malati, un mondo in cui nessuno ha più la capacità, propria dell’essere umano, di cavarsela da solo o di opporsi a che qualcosa gli sia imposta da altri. E questo è proprio il mondo che l’operatore umanitario organizza quando ha mano libera nell’applicare le sue idee.

Quando un operatore umanitario vorrebbe che ognuno avesse per sé un litro di latte, è evidente che egli non ha il latte a sua disposizione, e non può produrlo lui stesso. Altrimenti, il suo non sarebbe solo un pio desiderio. Inoltre, se egli avesse una quantità sufficiente di latte per distribuirne un litro a ciascuno, ma i suoi eventuali beneficiari fossero in grado di produrre il latte da sé e lo producessero davvero, essi gli direbbero: no grazie. Allora come deve agire l’operatore umanitario per fare in modo di disporre di tutto il latte da distribuire e perché ognuno abbia bisogno di latte?

C’è un solo modo, e questo è attraverso l’uso del potere politico nella maniera più completa. Per questo l’operatore umanitario si sente pienamente gratificato quando visita o sente di un paese in cui tutti hanno una carta alimentare. Quando i sussidi per sopravvivere sono distribuiti a tutti, allora l’obiettivo tanto desiderato è stato conseguito, quello di un potere superiore che si occupa di “soddisfare” un bisogno generale. L’operatore umanitario in teoria è il terrorista in azione.

Le persone buone gli confidano il potere che lui chiede in quanto esse hanno accettato le sue false premesse. Il progresso della scienza, che si traduce in un incremento di produzione, conferisce a ciò una ingannevole plausibilità. Dal momento che ce n'è abbastanza per tutti, perché non si può provvedere innanzitutto ai “bisognosi”, e risolvere per sempre il problema?

A questo punto ci si chiede, come definiamo i “bisognosi” e a partire da quali risorse e da parte di quale potere si provvede a loro. Le persone dal cuore generoso potrebbero allora esclamare indignate: “Questo è un cavillo. Si restringa la definizione quanto più possibile, e una volta ridotta al minimo non si può negare che una persona affamata, vestita di stracci e senza un tetto sotto cui ripararsi è un bisognoso. La fonte da cui prendere le risorse può essere rappresentata solo dalle disponibilità di coloro che non sono in stato di bisogno. Il potere per fare ciò esiste già. Se vi è un diritto a tassare le persone per l’esercito, la marina, la polizia locale, le strade, o per qualsiasi altro scopo immaginabile, di certo vi è un diritto prioritario a tassare le persone per la conservazione della vita stessa.”

Benissimo. Prendiamo un caso specifico. Nei difficili anni 1890, un giovane giornalista a Chicago era turbato a causa delle terribili condizioni dei disoccupati. Egli pensava che ogni persona onesta che volesse lavorare avrebbe potuto trovare una occupazione; ma, per essere sicuro di ciò, iniziò a fare ricerche e a documentarsi. Si imbatté allora nel caso di un giovane che abitava in una fattoria, dove la famiglia aveva forse abbastanza di che nutrirsi ma non c’era altro da fare oltre il lavoro. Il giovane agricoltore era venuto a Chicago per cercare una occupazione, e avrebbe certo accettato qualsiasi tipo di offerta di lavoro, ma non ce n’era alcuna. Supponiamo che egli avesse chiesto l’elemosina per ritornare a casa; vi erano altri individui che erano lontanissimi da casa e che non potevano intraprendere il viaggio contando solo sulle proprie risorse, questo è sicuro. Non ne avevano più i mezzi. Per questo dormivano nei vicoli, aspettavano di ricevere un pasto caldo presso i centri di assistenza e pativano amaramente.

E c’è dell’altro. Tra questi disoccupati vi erano alcune persone, impossibile dire quante, che erano eccezionalmente capaci, dotate e competenti; ed è proprio per questo che si trovavano in una simile situazione. Esse avevano tagliato i legami di dipendenza dalla famiglia in un periodo particolarmente difficile. Avevano scommesso su un grosso azzardo. Tra i disoccupati si trovano i tipi estremi: il coraggioso intraprendente, la persona semplicemente sfortunata, e il totale imprevidente e incompetente. Un fabbro che lavorava vicino al ponte di Brooklyn e che diede ad un vagabondo squattrinato dieci cents per pagare il pedaggio del ponte non poteva sapere che stava aiutando una persona che avrebbe raggiunto l’immortalità come poeta laureato d’Inghilterra. Quel vagabondo infatti era John Masefield. Per cui non si vuole qui sostenere che le persone in stato di bisogno sono necessariamente individui che non meritano di essere aiutati. Ci sono anche persone che vivono nelle zone agricole, in aree colpite dalla siccità o infestate dagli insetti, che sono in stato di necessità estrema, e che sarebbero letteralmente morte di fame se non avessero ricevuto un aiuto. E questo aiuto è stato molto scarso e occasionale. Ma ognuno ha lottato per uscire dalla situazione di bisogno, dappertutto nel paese.

Detto incidentalmente, ci sarebbe stata una sofferenza molto più severa invece di una semplice povertà, se non ci si fosse aiutati tra vicini, e questo non è nemmeno definito fare della carità. Le persone sono sempre generose, quando hanno delle risorse da dare. Questo è un impulso dell’essere umano su cui fa leva l’operatore umanitario per i suoi propri scopi. Cosa c’è di male a istituzionalizzare questo impulso naturale in una entità politica?

Benissimo! C'è da chiedersi quindi: Il ragazzo che lavorava in campagna ha commesso forse qualcosa di male lasciando la fattoria dove aveva abbastanza di che nutrirsi, per recarsi a Chicago a tentare la sua fortuna in un nuovo impiego?

Se la risposta è sì, allora si accetta l’esistenza di un potere che ha il diritto di impedire al ragazzo di abbandonare la fattoria senza permesso. Il potere feudale si comportava esattamente così. Non poteva fare in modo che la gente morisse di fame; semplicemente obbligava le persone a morire di fame là dove erano nate.

Ma se la risposta è no, il ragazzo di campagna non ha fatto niente di male, aveva tutte le buone ragioni per tentare la fortuna. E allora, che cosa andrebbe fatto perché uno non si trovi in una condizione di disagio quando arriva a destinazione? Bisogna forse fornire una occupazione a tutti in tutti i luoghi in cui uno decide di andare? Ciò è assurdo. Non può essere fatto. Ha la persona il diritto, in ogni caso, all’assistenza, quando si reca in un posto, per tutto il tempo in cui rimane lì; oppure ha il diritto ad un biglietto di viaggio per tornare a casa? Ciò è ugualmente assurdo. Ci sarebbe una richiesta senza limiti e nessuna possibilità di soddisfarla.

E che fare allora per le persone che sono diventate povere a causa della siccità? Non potrebbe essere dato loro un aiuto da parte delle autorità politiche, a certe condizioni? Devono ricevere l’aiuto solo fino a quando sono in stato di bisogno, e fino a quando rimangono nel luogo dove si trovano? (Non si può pagare il loro continuo trasferirsi altrove). Questo è proprio quello che è stato fatto negli ultimi anni; il risultato è stato di mantenere assieme, per alcuni anni, le persone che percepivano il sussidio, in ambienti squallidi, con una perdita di tempo, di energie, di risorse.

La verità è che qualsiasi metodo proposto per soccorrere i bisogni e le sventure che fanno parte del vivere umano, stabilendo un carico fisso e costante sulla produzione, sarebbe adottato con totale accordo anche da parte di coloro che sono attualmente contrari, se solo fosse praticabile. Quelli che non condividono queste proposte, lo fanno perché giudicano tali metodi non efficaci nella realtà delle cose. Costoro sono coloro che hanno già messo in essere tutti i rimedi possibili, sotto forma di assicurazioni personali. Essi sanno esattamente quali sono gli inconvenienti perché ne hanno fatto esperienza quando hanno cercato di provvedere ai loro dipendenti.

L’ostacolo insuperabile consiste nel fatto che è del tutto impossibile ottenere un sovrappiù di produzione prima di aver provveduto al funzionamento e all’ammortamento dell’impresa stessa.

Anche se fosse vero che i produttori in generale, i direttori d’impresa e gli altri che svolgono funzioni dirigenziali, hanno cuori di pietra e non si preoccupano affatto delle sofferenze umane, sarebbe per loro estremamente conveniente se fosse possibile risolvere una volta per tutte, in modo da non pensarci più, i problemi di assistenza, per ogni tipo di situazione difficile, che si tratti di disoccupazione, malattia o vecchiaia. Essi sono sempre soggetti ad attacchi a questo riguardo e le loro preoccupazioni raddoppiano tutte le volte che l’industria va in crisi. Gli uomini politici ottengono i loro voti proprio da queste situazioni di disagio; l’operatore umanitario si ritaglia una posizione lucrativa vantaggiosa come funzionario addetto alla distribuzione dell’assistenza. Solo i produttori, gli imprenditori e i lavoratori, devono sopportare gli insulti e pagarne il prezzo.

La difficoltà la si conosce meglio in casi concreti. Supponiamo che una persona che possiede una impresa in condizioni sane, con una lunga storia di buona gestione, volesse fare in modo che la sua famiglia ricevesse un sostegno da tale attività a tempo indefinito. Egli potrebbe, in quanto proprietario, assegnare delle quote che rendono un certo ammontare, diciamo $5.000 all’anno su un giro d’affari con un profitto netto annuo di $100.000. Questo è il massimo che egli possa fare. E se le sue attività produttive non generassero quei $5.000, la sua famiglia non otterrebbe quella somma di denaro e la cosa finirebbe lì. Si potrebbe avviare una procedura di bancarotta e liquidare il patrimonio, e dopo la liquidazione non resterebbe più nulla. Non si può ottenere qualcosa da una impresa di produzione se non si è prima provveduto al funzionamento dell’impresa stessa.

A parte ciò, la sua famiglia potrebbe di certo ipotecare le quote, trasferirne “la gestione” a qualche amico “benevolo”, cosa che si sa essere accaduta, ma anche così non ci sarebbe modo di ricavarne qualcosa. Questo è pressappoco ciò che capita nel caso di organizzazioni caritatevoli che godono di sovvenzioni. I fondi ricevuti permettono di mantenere un numero considerevole di persone amiche in impieghi protetti.

Ma cosa accadrebbe se l’imprenditore, per via del calore del suo generoso affetto, decidesse in maniera irrevocabile che sua moglie e la sua famiglia godano di un conto aperto per detrarre dai fondi dell’impresa le somme che a loro convengano. Egli potrebbe essere ingenuamente certo che i suoi familiari non ritirerebbero che piccole somme, per i loro bisogni indispensabili. Ma il momento potrebbe venire quando il cassiere si vedrebbe costretto a comunicare alla moglie spensierata che non ci sono più fondi per coprire un assegno; e, con questo tipo di disposizioni, è certo che quel momento arriverebbe abbastanza presto. In entrambi i casi, quando la famiglia avrebbe più bisogno di denaro, proprio allora l’impresa sarebbe a corto di soldi.

Ma la prassi sarebbe completamente folle se l’imprenditore concedesse ad una terza parte il potere irrevocabile di ritirare dai fondi dell’impresa quanto da essa voluto, con un accordo non vincolante che questa terza parte mantenga la famiglia del proprietario dell’impresa. E questo è proprio quello che propongono di fare quanti vogliono provvedere ai bisognosi attraverso lo strumento della politica. In questo modo si concede agli uomini politici il potere di tassare senza alcun limite; e non vi è assolutamente modo di assicurarsi che il denaro raccolto vada dove si pretende che vada. In ogni caso, l’impresa [3] non sarebbe in grado di sostenere un simile illimitato drenaggio di risorse.

Perché le persone dal cuore tenero fanno appello al potere politico? Esse non possono negare che i mezzi per l’assistenza devono provenire dalla produzione. E affermano che ce n’è più che abbastanza di beni prodotti. Quindi devono presumere che i produttori non hanno alcuna intenzione di concedere ad altri quello che è “giusto”. Inoltre, danno per scontato che c’è un diritto di tutti a imporre tasse, per un qualsiasi scopo deciso dalla collettività. Essi individuano il titolare di questo diritto nel “governo”, come se questo fosse una entità che esiste autonomamente, dimenticando l’assioma americano che il governo non è qualcosa di separato ma uno strumento prodotto dagli esseri umani, per scopi limitati. Il contribuente spera di ricevere protezione dall’esercito, dalla marina o dalla polizia; egli utilizza le strade. Per questo il suo diritto nel pretendere che vi sia un limite al prelevamento delle tasse è più che evidente. Il governo non ha alcun “diritto” nel decidere altrimenti, ma ha solo un potere delegato.

Ma se le tasse sono imposte per provvedere all’assistenza, chi dovrebbe giudicare cosa è possibile e benefico fare? Devono essere i produttori o i bisognosi o un qualche altro gruppo di persone; affermare che devono essere tutti e tre assieme non costituisce una risposta. L’opinione al riguardo deve oscillare tra una maggioranza o una fetta consistente dell’uno o dell’altro gruppo. Devono forse coloro che hanno bisogno di assistenza decidere essi stessi riguardo a quello che vogliono? Devono gli operatori umanitari assegnare a sé stessi il controllo sia dei produttori che dei bisognosi? (Questo è ciò che avviene). Si suppone allora che al governo sia dato il potere di provvedere alla “sicurezza” di coloro che sono nel bisogno. Ma non può farlo. Quello che invece fa è sottrarre alle persone le risorse che esse hanno messo da parte per garantirsi una certa sicurezza, privando quindi tutti della speranza e della possibilità di godere della sicurezza stessa. Il suo intervento non può limitarsi a nient'altro. Coloro che non capiscono la natura delle azioni dello stato sono come i selvaggi che abbattono un albero per goderne dei frutti. Essi non pensano nel lungo periodo e a largo raggio, come devono fare le persone civilizzate.

Nel corso della storia abbiamo visto ciò che di peggio può accadere quando esiste solo l’assistenza a livello personale o attraverso un sussidio locale occasionale e di carattere temporaneo. L’assistenza fornita direttamente dalle persone è casuale e sporadica; non è mai riuscita a prevenire del tutto le sofferenze. Al tempo stesso, non perpetua la dipendenza di coloro che ricevono l'aiuto. Questo è il metodo del capitalismo imprenditoriale basato sulla libertà [4]. È caratterizzato da cicli straordinari di alti e bassi, ma i cicli in ascesa portano, tutte le volte, sempre più in alto e sono di più lunga durata che le cadute verso il basso. E anche nei periodi di maggiore depressione, non c’erano carestie, disperazione totale, ma uno strano tipo di rabbioso, attivo ottimismo, e una incrollabile fiducia che il futuro avrebbe portato tempi migliori, come poi davvero avveniva. Risorse donate in maniera non ufficiale, sporadica, personale, raggiungevano realmente lo scopo. Il tutto funzionava, anche se in maniera imperfetta.

E invece, che cosa può fare il potere politico? Una delle “vergogne” rimproverate al modo di produzione capitalistico era lo sfruttamento in fabbrica. Gli immigrati arrivavano in America senza un soldo e senza conoscere la lingua e privi di competenze di mestiere; erano presi in fabbrica per salari molto bassi, lavoravano lunghe ore in ambienti insalubri e si diceva che erano sfruttati. Eppure, misteriosamente, con il passare del tempo, essi miglioravano la loro condizione; la grande maggioranza arrivava a conseguire un certo livello di benessere e alcuni diventavano ricchi. Avrebbe potuto il potere politico garantire impieghi lucrosi a tutti coloro che volevano venire? Niente affatto. E, nonostante ciò, le persone perbene fecero appello al potere politico perché alleviasse la dura condizione di questi nuovi venuti. Che cosa fece allora il potere politico? Come prima richiesta impose che ogni immigrato portasse con sé una certa somma di denaro. In altre parole, distrusse le speranze delle persone più bisognose di poter venire. In seguito, quando il potere politico in Europa aveva ridotto la vita delle persone ad un tetro inferno e, nonostante ciò, un consistente numero di persone avrebbero ancora potuto mettere assieme la somma richiesta per essere ammessi in America, il potere politico qui da noi ridusse semplicemente il numero di persone a cui era consentito l'ingresso, fissando una quota. Quanto più disperato era il bisogno di migliorare la propria vita, tanto meno il potere politico concedeva alle persone in termini di opportunità. Milioni di Europei non sarebbero forse stati contenti e grati se avessero potuto continuare a contare sulle possibilità anche miserevoli che offriva loro il sistema precedente, piuttosto che marcire in campi di reclusione, sottoposti a torture, subendo umiliazioni ignobili e una morte violenta?

Il datore di lavoro che gestiva una fabbrica non aveva molte risorse. Metteva a rischio il poco che aveva dando lavoro a delle persone. Era accusato di commettere terribili ingiustizie e le sue attività commerciali erano mostrate come indice dell’intrinseca brutalità del capitalismo.

Il funzionario politico è abbastanza ben retribuito, con una occupazione per il resto della sua vita. Senza alcun rischio personale, ottiene la sua paga respingendo persone disperate oltre le frontiere, e vi sono anche casi di persone che stavano affogando, abbandonate al loro destino mentre la nave passava oltre. Cos’altro può fare? Niente. Il capitalista ha fatto quello che poteva fare; il potere politico fa quello che può. Detto incidentalmente, la nave era un prodotto dell'imprenditoria capitalistica.

Facendo un confronto tra il comportamento del filantropo e quello dell’imprenditore, prendiamo il caso di una persona che è davvero in una condizione di bisogno, che non è fisicamente disabile, e immaginiamo che il filantropo gli dia del cibo, dei vestiti e un posto al coperto. Quando questi beni si sono esauriti, la persona si ritrova come era prima, solo che adesso potrebbe aver acquisito l’abitudine alla dipendenza. Ma supponiamo che qualcuno, privo di qualsiasi motivo dettato dalla benevolenza, volendo semplicemente che un qualche lavoro sia fatto per motivi suoi, decida di assumere la persona bisognosa pagandole un salario. Il datore di lavoro non ha fatto alcuna buona azione. Eppure, la condizione della persona che ha adesso un lavoro retribuito è cambiata. Quale è la differenza vitale tra le due azioni?

La differenza è che il datore di lavoro non filantropo ha riportato la persona da lui assunta nell’ambito della produzione, nel grande circuito della vita attiva; mentre il filantropo può solo deviare l’energia in modo tale che non vi è un beneficio produttivo, e perciò vi sono meno probabilità che l’oggetto del suo atto di beneficenza trovi un lavoro.

Questa è la ragione profonda, sensata, del perché gli esseri umani rifuggono l’assistenza e odiano persino la parola. Questo è anche il motivo per cui coloro che compiono atti caritatevoli spinti da un genuino impulso, fanno in modo che questi atti siano occasionali, e sono più contenti se si presenta l’opportunità di fare del bene dietro la possibilità per il beneficiario di effettuare un lavoro in condizioni abbastanza tollerabili. Coloro che non possono evitare di ricevere assistenza ne avvertono e mostrano gli effetti nel loro essere; essi sono tagliati fuori dalla fonte viva del rinnovamento personale delle energie, e la loro vitalità va a picco.

Il risultato, se costoro rimangono dipendenti dall’assistenza a seguito di decisioni concertate tra il filantropo e il politico, è stato descritto da un operatore sociale. All’inizio i “clienti” fanno domanda con una certa riluttanza. “Dopo alcuni mesi tutto ciò cambia. Si scopre adesso che la persona che aveva bisogno solo di una spinta per superare un brutto momento si è adagiata a vivere di assistenza come un fatto naturale”. L’operatore sociale che ha fatto queste affermazioni “viveva lui stesso di assistenza come un fatto scontato”; ma si trovava su un piano di consapevolezza di gran lunga inferiore al suo cliente, in quanto non si rendeva nemmeno conto della sua condizione di assistito. E come riusciva a mascherare la verità? Perché poteva nascondersi dietro il motivo della filantropia. “Noi aiutiamo le persone a evitare la fame, e ci preoccupiamo che abbiano un tetto e un letto come protezione”. Se si chiedesse all’operatore sociale: coltivi un campo per produrre gli alimenti, costruisci tu stesso un rifugio per lui, o trasferisci all’assistito parte del tuo denaro, egli non vedrebbe in ciò nessuna differenza con quanto fa adesso. Gli è stato insegnato che è giusto “vivere per gli altri”, per “scopi sociali” e per “benefici sociali”. Fino a quando egli crederà che stia facendo proprio questo, non si chiederà che cosa sta facendo di veramente necessario per questi altri, né da dove provengano le risorse che gli garantiscono di vivere.

Se si osservasse la schiera infinita di sinceri filantropi dall’inizio della storia, si troverebbe che tutti assieme, esclusivamente con le loro attività filantropiche, non hanno procurato all’umanità un decimo dei benefici che sono derivati dagli sforzi interessati di un Thomas Alva Edison, per non parlare delle grandi menti che hanno scoperto i principi scientifici che Edison ha utilizzato per le sue invenzioni. Un numero enorme di pensatori, inventori e organizzatori hanno contribuito al benessere, alla salute e alla felicità di altri esseri umani - proprio perché questo non era il loro obiettivo diretto.

Quando Robert Owen ha cercato di gestire una fabbrica in maniera efficiente, il tentativo ha, tra le altre cose, migliorato il comportamento di alcuni dei suoi lavoratori molto poco promettenti, i quali erano prima assistiti e perciò in una condizione di deplorevole degrado morale. Owen guadagnò del denaro e, mentre era occupato a fare profitti, gli arrivò di scoprire che, se avesse retribuito meglio i suoi lavoratori, avrebbe potuto incrementare la produzione in quanto si sarebbe generato un più ampio mercato. La qual cosa era sensata e rispondente al vero. A quel punto però Owen divenne ispirato da ambizioni umanitarie, e cioè di fare del bene a tutti. E così raccolse molte persone spinte da motivazioni umanitarie e fondò una colonia sperimentale. Tutti costoro erano così intenti a fare l’uno il bene dell’altro, che nessuno si preoccupò di dedicarsi ad una benché minima attività produttiva. E la colonia si dissolse in mezzo a mille litigi. Owen fallì e morì leggermente insano di mente. Per cui, quel principio importante che egli aveva intravisto, doveva attendere un secolo prima di essere riscoperto.

Il filantropo, il politico e lo sfruttatore si trovano inevitabilmente uniti e coalizzati perché hanno gli stessi motivi, ricercano gli stessi fini, esistono per gli altri, attraverso gli altri e per mezzo degli altri. E le persone perbene non possono essere assolte per il fatto di sostenerli. Né si può credere che le persone perbene non siano consapevoli di quello che realmente avviene. Ma quando le persone perbene sanno, come di certo lo sanno, che tre milioni di persone (come stima minima) sono morte di fame in un anno [5] applicando i metodi che esse approvano, perché fraternizzano ancora con gli assassini e sostengono queste misure? Lo fanno perché gli è stato detto che la lenta morte di tre milioni di persone potrebbe alla fine essere di beneficio per un più grande numero di persone.

Questa tesi si applica molto bene anche a tutte le pratiche di cannibalismo.

 


 

Note

[1] C.S. Lewis ha sostenuto una tesi simile nel suo scritto The humanitarian theory of punishment (1954):

“Di tutte le tirannie, quella esercitata con sincerità per il bene delle sue vittime può essere la più opprimente. Potrebbe essere meglio vivere sotto una banda di ladri che sotto moralisti ficcanaso onnipotenti. La crudeltà dei ladri può talvolta assopirsi, la loro avidità può arrivare a un certo punto ad essere sazia; ma coloro che ci tormentano per il nostro bene ci tormenteranno all'infinito perché essi agiscono così con l'approvazione della loro coscienza.”

In precedenza, David Thoreau aveva affermato che

“La filantropia è quasi l'unica virtù che è abbastanza apprezzata dall'umanità. Si può anche dire che è molto sopravvalutata; ed è a causa del nostro gretto interesse che avviene ciò. Una persona robusta, in un giorno di pieno sole qui a Concord, parlando con me ha espresso grandi lodi nei confronti di un nostro concittadino perché, ha detto, era molto gentile con i poveri, intendendo in tal modo, generoso con lui.”

In un altro passaggio, Thoreau dice a chiare lettere cosa egli pensi dei filantropi e della filantropia:

“Se sapessi per certo che una persona stesse venendo a casa mia con il preciso proposito di farmi del bene, scapperei via di corsa per mettermi in salvo … per paura del 'bene' che potrebbe riversare su di me.” (Walden, 1854).

[2] Il riferimento è probabilmente a Joseph Stalin.

[3] La Paterson fa chiaramente riferimento a piccole e medie imprese che non godono di finanziamenti e di assistenza statale e che devono far fronte a carichi fiscali del tutto eccessivi.

[4] Il capitalismo imprenditoriale basato sulla libertà a cui allude la Paterson è un modello ideale praticamente inesistente nella storia, almeno su vasta scala, ma che, se attuato davvero, avrebbe dei punti in comune con la visione di Benjamin Tucker e di molti collaboratori della sua rivista Liberty, contrari ai privilegi e ai monopoli.

[5] Isabel Paterson fa probabilmente riferimento alla carestia scoppiata nella regione del Bengala (India) nel 1943 che provocò 3 milioni di morti. Le cause della carestia sembra siano da attribuirsi alla politica del governo inglese guidato da Churchill che favoriva con tutti i mezzi, anche attraverso la manipolazione della moneta e dei prezzi, il trasferimento della produzione agricola dalle campagne verso le città, a vantaggio dei funzionari governativi, della burocrazia, dell'esercito e dei lavoratori industriali necessari per la produzione militare.

 

 


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