Camillo Berneri

Sul lavoro

(1936)

 



Nota

Secondo Berneri, per trasformare il lavoro in qualcosa di piacevole “1. la durata del lavoro deve essere proporzionata alla fatica; 2. ognuno deve essere libero di svolgere quell'attività produttiva alla quale si sente maggiormente portato.” Allora il lavoro può diventare anche e addirittura un gioco.

Fonte: Estratto da L'Adunata dei Refrattari, 1936. Si veda, Camillo Berneri, Anarchia e società aperta, Scritti editi e inediti, a cura di Pietro Adamo, M & B, Milano, 2001.

 


 

Il lavoro piacevole

«Nell'officina ideale — dice uno degli scolari — i capireparto distribuiscono al mattino il lavoro agli operai e parlano loro come a degli uguali. Non li si ode gridare a pieni polmoni contro i lavoratori e bestemmiare come li ho intesi. Il direttore ha cura di non ferire i capi-reparto dando loro ordini.

Tutti gli scolari pongono l'officina ideale in campagna.

«La facciata — dice uno di essi — somiglia a quella di una grande villa. Davanti: degli alberi i cui fiori imbalsamano l'aria. All'interno tutto sarà pulito come in una vasta sala da pranzo. I locali sono bene aerati, ben illuminati. Dietro non si vedono più delle grandi ciminiere che vomitano dei neri fiotti di fumo, ma un vasto cortile con degli alberi dove gli operai potranno riposarsi tra le ore di lavoro».

Tutti immaginano i muri coperti di un colore chiaro, tutti parlano di sole, di luce, di salute. I laboratori saranno ventilati in estate, riscaldati in inverno, perché «la natura umana è così fatta che ha bisogno di un minimo di benessere per restare onesta».

Un altro: «L'operaio entrerà in questa officina come rientrerebbe a casa propria. Vi saranno dei lavabi, perché possa uscire dall'officina così pulito come vi è entrato... Egli sarà fiero della sua officina. Quando vi passerà davanti in compagnia di un amico, dirà: «È l'officina dove lavoro». E sarà contento di se stesso e questo farà nascere la buona vita di famiglia».

Un altro: «Dei posti radio incoraggeranno con la loro musica e con il loro canto gli operai. Questa officina offrirà loro una vita tranquilla. Ne saranno fieri... Se fossero costretti ad andarsene, sarà, forse, piangendo che la lasceranno».

Quasi tutti forniscono questo luogo immaginario di mezzi pratici di locomozione e quasi tutti sognano biblioteche e sale da gioco.

Si tratta di bambini che non hanno mai letto la Conquista del pane di Kropotkin, né Travail di Zola, né le previsioni avveniriste di William Morris o di Bellamy. Eppure fiorisce il sogno luminoso, perché quel sogno è l'aspirazione del lavoratore sulla soglia dei tempi nuovi. L'idea del lavoro attraente è una delle idee più antiche. La troviamo espressa chiaramente ne Le Opere e i Giorni di Esiodo, poeta greco vissuto otto o nove secoli avanti Cristo.

La formula: «Fa quello che vuoi», applicata al lavoro è una delle caratteristiche della vita dei Telemiti immaginata, nel secolo XVI, dal Rabelais (Gargantua, cap. 57). Anche Fénelon, nel III libro del Télémaque (1699), applica quella formula al lavoro. Morelly, nella Basiliade, scriveva: «Ammettiamo che la libera attività dell'uomo versi nel fondo comune più di quanto in esso possano attingere i bisogni, è chiaro che le leggi, i regolamenti divengono quasi inutili, poiché ad ogni funzione necessaria risponde negli individui un gusto naturale, una ben spiccata vocazione. I pareri dei capi saranno accettati con piacere; nessuno si crederà dispensato da un lavoro che l'unanime concorso degli sforzi renderà attraente e vario. E le diverse occupazioni non saranno più dei lavori, bensì dei divertimenti. Niente sarebbe più facile della regolamentazione di una simile riunione fraterna; poiché, dalla libertà la più illuminata risulterebbe l'ordine più perfetto».

Fu il Fourier a sviluppare ampiamente e sistematicamente il principio del lavoro attraente, la cui prima condizione è da lui indicata nella varietà e la seconda nella breve durata. Il lavoro «gradevole e senza fatica» è una delle realizzazioni socialiste preannunciate nel Voyage en Icarie (1840) del Cabet. A ragione Victor Considerant, che della idea del lavoro attraente si fece elaboratore e propugnatore, diceva a M. Lansac (Plus loin, Parigi, luglio 1933) che fra le concezioni del Fourier che avrebbero attratto maggiormente l'attenzione dei posteri vi sarà quella del lavoro attraente per gruppi e per serie.

Benoît Malon, George Renard, Jean Jaurès e altri socialisti francesi si mostrarono influenzati dalla concezione fourierista dell'organizzazione del lavoro. Emile Zola, nel suo romanzo Travail ci mostra un'officina in cui il lavoro, variato, in un ambiente pulito e luminoso, assecondato dalle macchine, è diventato «una ricreazione, una gioia, un vero piacere». Zola enuncia come un principio inderogabile, come un atto di fede e un sicuro vaticinio che il lavoro deve diventare «la legge stessa della vita». Anche dei fisiologi hanno sostenuto, nel XIX secolo, la possibilità del lavoro attraente. Tra costoro è il Rossi-Doria che in una sua relazione scriveva: «Il lavoro non deve essere più un tormento, causa di mali, ma una gioia ed un fattore importante della salute fisica e morale».

Gli scrittori anarchici hanno particolarmente contribuito a mantenere viva l'idea del lavoro attraente. Piotr Kropotkin afferma categoricamente: «Nel lavoro collettivo compiuto con gaiezza di cuore per raggiungere lo scopo desiderato — libro, opera d'arte, od oggetto di lusso — ognuno troverà lo stimolante, il sollievo necessario per rendere la vita gradevole».

Quando, nei nostri discorsi o scritti avveniristi, affermiamo che verrà un giorno in cui tutti, o quasi tutti, lavoreranno spontaneamente e con piacere, è frequente la risposta: «È un'utopia!». Ci sono invece nella società attuale degli uomini che lavorano a lungo e di continuo senza pena, anzi con un senso di soddisfazione. Costoro sono gli scienziati, i pensatori, gli artisti.

Ho sotto gli occhi le risposte ad un'inchiesta della Rivista di filosofia e scienze affini del 1907, che sono di grande interesse. Eccone alcune. L'economista Maffeo Pantaleoni dichiara: «Se devo stare a tavolino, dieci ore non mi stancano affatto»; ed aggiunge che il lavoro è per lui gioia e pena ad un tempo, a seconda di come riescono le sue ricerche, ma «l'ardore non scema, perché diventa accanimento e smania, indicibile. La stanchezza non c'è mai».

Il filosofo danese Herald Hoffding dice: «Ben di rado ho potuto lavorare continuamente intorno allo stesso soggetto. Io devo lavorare per turno intorno a diversi temi. Se son ben disposto, posso lavorare cinque ore al mattino e cinque ore alla sera». I periodi di lavoro racchiudono per lui «forse il sentimento più intenso di felicità che la vita possa offrire».

Roberto Ardigò dichiara: «Il lavoro per me è un bisogno irresistibile. Lavoro fino al massimo della stanchezza che riesce poi in generale accompagnata dalla soddisfazione e dalla compiacenza del lavoro fatto». Il clinico De Giovanni risponde che, quando non si tratti di un lavoro imposto, prova sempre piacere lavorando, e che può lavorare anche più di sei ore consecutive. L'astronomo Schiapparelli risponde di aver lavorato quasi sempre dieci ore al giorno, tra il venticinquesimo e il sessantesimo anno, e di esser giunto a lavorare sedici ore consecutive intorno ad una medesima occupazione. Egli dichiara inoltre che lo stare senza far niente è stato sempre, per lui, un supplizio. L'economista Achille Loria dichiara di lavorare quattro o cinque ore consecutive senza stancarsi e dice: «Il lavoro intellettuale non mi ha mai cagionato alcuna fatica, ma sempre mi ha procurato le gioie più care». Il letterato Arturo Graf dice che lavora di buona voglia, essendo per lui il lavoro una «fonte di gioia vivissima», ma che gli è estremamente penoso il fare un articolo, anche breve, a richiesta e su tema dato.

Le risposte degli artisti concordano nell'affermare che il lavoro procura tale gioia da impedir loro di sentire la stanchezza. Le risposte, pochissime, in cui si parla di incapacità di lavorare a lungo e di sofferenza nel lavoro, sono accompagnate da dichiarazioni di malferma salute o di difetti organici.
Qualcuno potrebbe osservare che i casi citati si riferiscono a personalità eccezionali. L'obbiezione sarebbe poco valida, poiché abbiamo visto che anche queste personalità mal si adattano ai lavori che non li interessano, non li entusiasmano, non rispondendo alle tendenze, alle attitudini, ai fini loro.

Il caso di Gustave Flaubert è tipico, sotto questo aspetto. Egli era un lavoratore che restava talvolta a tavolino diciotto ore consecutive, ma in alcuni periodi il lavoro gli pesava, sia perché stava facendo il lavoro di rifinitura stilistica sia perché stava facendo ricerche preparatorie. Mentre stava scrivendo Madame Bovary, egli diceva in una sua lettera (17 settembre 1855): «Spero che fra un mese la Bovary avrà il suo arsenico nel ventre»; frase spiegabile da questo passaggio di una lettera dello stesso mese (20 settembre): «Lavoro mediocremente e senza gusto o piuttosto con disgusto. Sono veramente stanco di questo lavoro; è una vera penitenza per me, ora». Quando scriveva Salammbô (1858), un solo capitolo del quale romanzo gli costò tre mesi di accanito lavoro, egli scriveva in una lettera: «Mi corico ogni sera estenuato come un manovale che abbia spezzato dei ciottoli sulle vie maestre».

Quello che si osserva nelle grandi individualità lo si riscontra anche negli uomini comuni. Per tutti il lavoro intellettuale può avere una lunga durata, continuità e dare buon profitto, quando ha per stimolo l'interesse, nel senso spirituale della parola. Il dire: «lavoro senza fatica» significa «lavoro, senza aver coscienza di stancarmi». Un contabile che fa calcoli semplici ed un astronomo che fa calcoli complicatissimi si stancano tutti e due, ma mentre il primo sente il peso della fatica in quanto non è animato da alcuna passione conoscitiva, il secondo trova nell'arida meccanicità del calcolo un alito di vita, una luce che lo spinge a vegliare e gli facilita la veglia cacciando il sonno e mascherando la stanchezza. L'elemento negativo del lavoro è la noia. La noia è la coscienza continua della fatica ed è al tempo stesso un coefficiente della fatica.

Il rapporto fra la noia e la fatica appartiene al lavoro manuale quanto a quello intellettuale, poiché qualunque attività fisica implica di necessità una certa attività intellettuale. Il portalettere di campagna che percorre ogni giorno il viottolo di montagna, non è attratto, stupito, entusiasmato dal panorama che si svolge sotto i suoi occhi. Ogni svolta non gli prepara nuove impressioni come al turista innamorato della montagna che sale sui fianchi rocciosi, non vedendo l'ora di essere sulla cima, per spaziare con lo sguardo e cogliere bellezze maggiori di quelle che il viottolo sassoso ed erto gli offre continuamente. Così lo scalpellino non prova certo l'ebbrezza dello scultore che vede ad ogni colpo di scalpello concretarsi un po' dell'immagine che è viva nel suo genio.

Ogni fatica fisica è dunque più o meno intensa a seconda delle condizioni di spirito con le quali è compiuta. La noia è un elemento depressivo. Nel lavoro intellettuale si manifesta sotto l'aspetto di torpore. L'individuo che lavora col cervello annoiato è in uno stato come di dormiveglia. Nel lavoro manuale la noia allunga il tempo. Ogni attimo è un'ora. Ogni ora è, come si dice, un secolo.

Michelet racconta nelle sue memorie quel che provava da giovanetto lavorando nella stamperia di suo padre: «Immobile alla mia cassa, sotto il peso della noia, nient'altro che la noia, appresi che cosa siano le lunghe ore».

La noia si manifesta sotto forma di una specie di orgasmo generale ed è giusta l'osservazione del Tarde, che essa provoca disturbi della circolazione, della nutrizione, sensibilità al freddo ed al caldo, inappetenza, dimagramento, ecc. Come si può tener lontana la noia dal lavoro? Ecco il problema che scaturisce da queste premesse. Il lavoro è sempre una fatica. Il problema sta nello stabilire come possa diventare per tutti una fatica piacevole. Ogni manifestazione di energia è accompagnata da un sentimento di piacere quando è proporzionata alla potenzialità dell'organismo. Una passeggiata è piacevole, mentre una marcia forzata è una pena. Così pure un'attività è piacevole quando risponde ad un impulso spontaneo. Quando l'individuo, per le condizioni esteriori, agisce in opposizione alle sue tendenze, si esaurisce nello sforzo di volontà su sé stesso. Di qui la sofferenza e la minore capacità produttiva.

Da queste considerazioni si deducono queste conseguenze: 1. la durata del lavoro deve essere proporzionata alla fatica; 2. ognuno deve essere libero di svolgere quell'attività produttiva alla quale si sente maggiormente portato.

Rispetto alla durata del lavoro, bisogna tener conto del genere di occupazione: ci sono lavori noiosi di per sé stessi e, quindi, di lunga durata. Bisogna quindi considerare il tempo dal punto di vista soggettivo, cioè tenendo conto del riflesso psichico che il lavoro ha in chi lo compie. Ci sono lavori «leggeri» in quanto non richiedono un grande consumo di energia muscolare, ma pesantissimi perché noiosi, e come tali causa di un enorme spreco di energie nervose.

La seconda conseguenza si integra con la prima. Dato che ogni lavoro è tanto più faticoso quanto meno è interessante, ognuno si stancherà meno, quindi lavorerà più e meglio, quando potrà svolgere la sua attività nel campo preferito. Ciò non è possibile senza l'emancipazione economica e lo sviluppo tecnico del lavoratore. Quando, come profetizzava il Carlyle, ogni individuo potrà scegliere come sfera del proprio lavoro quella per la quale ha maggiore tendenza, il lavoro non sarà più una pena e potrà per molti divenire una gioia.

Molti dei pigri sono come quel personaggio dell'Albergo dei poveri che dice: «Quando il lavoro è piacevole la vita è bella. Trovatemi un lavoro piacevole ed io lavorerò».

Conclusione

Il lavoro è stato per secoli e ovunque, e ancora lo è, una pena. È significativo il fatto che in tutte le lingue ariane le parole indicanti uno sforzo produttivo, significano sofferenza. L'uomo ha sempre lavorato per bisogno, ma al tempo stesso vi è nell'uomo l'istinto del lavoro, che non è, forse, che una manifestazione dell'istinto erotico. La pigrizia di certe popolazioni primitive non è tanto stupida indolenza quanto refrattarietà ad adattarsi a fatiche nuove e richiedenti attenzione continuata e generanti la noia. La caccia, la pastorizia e la pesca sono attività che stanno tra il lavoro ed il gioco e fu principalmente il bisogno economico e la coazione da parte di guerrieri vincitori che spinsero popoli viventi di caccia o di pesca a trasformarsi in popoli agricoltori e a dare incremento all'industria. Là dove le condizioni naturali richiedevano grandi sforzi di lavoro, mentre offrivano possibilità di commercio terrestre o marittimo, le popolazioni furono eminentemente trafficanti e viaggiatrici (Fenici, Ebrei, ecc.).

L'uomo è «homo faber» in quanto animale politico, e a ragione il Ribot dice che l'amore del lavoro «è un sentimento secondario che va di pari passo con l'incivilimento».

L'amore del lavoro, condizione importante del benessere economico e psichico, ha per condizione evolutiva il progresso del lavoro stesso, progresso che non può essere rappresentato soltanto da quantitativi di produzione, bensì anche dalla tendenza a cessare di essere una pena per avvicinarsi ad essere un gioco. Un lavoro liberamente scelto interessa particolari inclinazioni; un lavoro non eccessivo non spaventa una pigrizia che non sia morbosa; un lavoro piacevole seduce anche il pigro, specialmente quando il principio del «chi non lavora non mangia», ispiri l'ambiente sociale in cui vive.

In una delle sue conferenze, il Renan diceva: «Non ho alcun dubbio sull'avvenire. Sono convinto che i progressi della meccanica, della chimica, redimeranno l'operaio; che il lavoro materiale dell'umanità andrà sempre più diminuendo e diventando meno penoso; che, in tal modo, l'umanità diverrà più libera di darsi ad una vita felice, morale, intellettuale».

Già sotto il regime capitalista, il lavoro industriale marcia verso il lavoro attraente. Nell'officina del Sunlight Soap a Haubourdin (Nord della Francia) una lettrice distrae le impacchettatrici. In una relazione approvata, nel luglio 1931, dal Congresso dell'Associazione manifatturiera dell'Illinois, si esalta l'effetto stimolante della musica. «L'effetto — dice la relazione — può paragonarsi a quello delle bande e delle fanfare nei reggimenti, durante le riviste e le marce faticose. Un improvviso entusiasmo, un nuovo vigore rianimano l'organismo stanco e abbattuto».

Numerose fabbriche sono illuminate razionalmente e si comincia a tener conto dell'influenza fisio-psichica dei colori, dei suoni, degli odori, ecc. Ma tutto questo modernismo è viziato dagli intenti di sfruttamento. Si escogitano mezzi e metodi per non affaticare «inutilmente» l'operaio, per poterlo utilizzare più interamente, e certe esaltazioni della musica nelle fabbriche invece che richiamare gli stimoli sensuali, affettivi e volitivi del Fourier, richiamano l'empirico e utilitario fisiologismo di quei carrettieri che per stimolare i loro cavalli esauriti a vincere un'erta salita li fanno precedere da una giumenta.

Comunque, la tecnica verso l'emancipazione del lavoro nell'orbita della produzione continua a perfezionarsi e prepara i tempi in cui anche nel lavoro industriale l'uomo avrà un'occupazione non penosa. E verrà un giorno in cui, amica all'uomo la macchina, tutti gli uomini saranno occupati a seconda delle loro particolari preferenze e in lavori piacevoli. Allora il loro piacere nascerà dal loro lavoro, «come i petali colorati di un fiore fecondo». Quest'immagine del Ruskin è un iridato riflesso di tutto il suo apostolato di scrittore socialista-umanista, ma troverebbe non poche conferme altrettanto eloquenti all'idea fourierista del «lavoro piacevole» chi le cercasse negli scritti e nei discorsi dei letterati e degli artisti del secolo XIX. D'Annunzio fece proprio il motto dell'epoca dei Comuni: «Fatica senza fatica», motto di mirabile concisione e di precisione non meno mirabile, poiché la fatica è legge del lavoro, per quanto attraente esso sia. L'Immaginifico non ha che vagamente intuita la verità sociale di questo motto e superficialmente sentita la bellezza morale che esso racchiude.

«Fatica senza fatica» significa lavoro libero, lavoro in cui la personalità si esalta e si perfeziona.
Come questo motto possa passare dal vaticinio alla storia deve essere problema pensato e discusso. E noi siamo più di tutti adatti a tale esame, poiché nel produttore vediamo l'uomo; poiché non ci bastano le formule fredde dei misuratori di prodotti, che non vedono quali immensi tesori siano nascosti nelle energie conculcate e deviate di coloro che compiono la quotidiana fatica senza luce di pensiero, senza alcun sentimento piacevole, atrofizzando le ali della loro personalità e trasmutandosi nel corso di pochi anni in macchine sempre meno umane.

 


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