Elisée Reclus

L'Anarchia

(1894)

 



Nota

Elisée Reclus tratteggia la concezione anarchica in termini appassionanti in quanto l’anarchia è innanzitutto una scelta etica personale e poi una maniera estremamente interessante e appagante di auto-organizzazione della propria vita in società.


Fonte: Elisée Reclus, L'Anarchie. Passaggi estratti da una conferenza tenuta dall’autore ai membri della loggia massonica “Les amis philanthropes” a Bruxelles il 18 giugno 1894.

 


 

L’anarchia non è affatto una teoria nuova. La parola stessa presa nel suo significato di “assenza di governo”, di “società senza capi”, è di antica origine e fu utilizzata molto prima che lo facesse Proudhon. D’altronde, che importanza hanno le parole? Ci sono stati degli acrati [1] prima degli anarchici, e gli acrati non avevano ancora trovato il loro nome scientifico prima che innumerevoli generazioni si fossero succedute. In ogni epoca ci sono stati esseri umani liberi, persone che non hanno tenuto in alcun conto regole provenienti dall’esterno, individui che vivevano senza sottomettersi ad alcun padrone, seguendo il diritto primordiale ad una propria esistenza e ad un proprio pensiero.

Persino nelle prime fasi della storia troviamo dappertutto delle tribù composte da individui che si organizzano a loro modo, senza leggi imposte, non avendo altra regola di condotta se non “la loro volontà e il franco discernimento”, per dirla con Rabelais, e che erano spinte anche dal desiderio di fondare una “fede profonda” come i “cavalieri tanto prodi” e le “dame tanto gentili” che si erano dati convegno nell’abbazia di Thélema [2].

Ma se l’anarchia è così antica come l’umanità, nondimeno coloro che la rappresentano contribuiscono ad apportare qualcosa di nuovo nel mondo. Essi sono del tutto consapevoli del fine perseguito e, da una estremità all’altra della Terra, si mettono d’accordo sulla base del loro ideale per respingere ogni forma di dominio. Il sogno della libertà, dappertutto nel mondo, ha cessato di essere una pura utopia filosofica e letteraria, come lo è stato per i fondatori della Città del Sole o di una Nuova Gerusalemme. Esso è divenuto lo scopo pratico che una moltitudine di persone si sforzano di attuare assieme, individui che cooperano con fermezza per la nascita di una società nella quale non vi sarebbero più padroni, o burocrati preposti alla pubblica morale, né carcerieri o carnefici, né ricchi né poveri, ma solo fratelli che dispongono tutti dei mezzi di sostentamento quotidiano, pari nei loro diritti, vivendo in pace e in armonia non per l’obbedienza cieca a delle leggi accompagnate sempre da terribili minacce di pene, ma attraverso il rispetto reciproco degli interessi e l’osservanza scientifica delle leggi naturali.

Indubbiamente questo sembra a molti di voi un ideale chimerico, ma sono anche sicuro che esso appare desiderabile alla maggior parte delle persone e che voi intravedete a distanza l’immagine di una società pacifica in cui le persone, oramai riconciliate, faranno arrugginire le loro spade, faranno fondere i cannoni e porranno in disarmo le navi da guerra. D’altronde, non siete forse voi coloro che, da molto tempo, da migliaia di anni, come siete soliti dire, operate a costruire il tempio dell’uguaglianza? Voi siete dei “liberi muratori” che stanno costruendo un edificio di proporzioni perfette, dove entrano solo gli individui liberi, uguali e fratelli, che operano incessantemente a perfezionarsi e a rinascere, spinti dalla forza dell’amore di una vita nuova, fatta di giustizia e di bontà. Non è questo il vostro ideale? E in questo non siete i soli.

Voi non pretendete di avere il monopolio dello spirito di progresso e di rinnovamento. Voi correttamente dimenticate i vostri avversari particolari, coloro che vi maledicono e vi scomunicano, i cattolici focosi che condannano all’inferno i nemici della Santa Chiesa, ma che, nondimeno, profetizzano la venuta di un’era di pace perenne. Francesco d’Assisi, Caterina di Siena, Teresa d’Avila e molti altri ancora tra i testimoni di una fede che non è la vostra, hanno di certo amato l’umanità dell’amore più sincero e noi dobbiamo contarli nel numero di coloro che vivevano per un ideale di felicità e serenità universali. E al giorno d’oggi, milioni e milioni di socialisti, a qualsiasi tendenza essi appartengano, lottano anch’essi per un futuro in cui il dominio del denaro sarà infranto e le persone potranno infine dirsi “uguali” senza che ciò appaia come una presa in giro.

Le finalità degli anarchici sono quindi comuni con molte altre persone generose, che appartengono alle religioni, alle sette e ai partiti più diversi, ma che si distinguono nettamente per i mezzi proposti, come indica, nella maniera più chiara, l'appellativo di ciascuno di questi gruppi. La conquista del potere è stata quasi sempre la preoccupazione maggiore dei rivoluzionari, anche di quelli che avevano le migliori intenzioni. L’educazione ricevuta non consentiva loro di immaginarsi una società libera che funzionasse senza un governo regolare e quindi, non appena erano riusciti a disfarsi di padroni odiati, si affrettavano a rimpiazzarli con altri padroni destinati, secondo la formula consacrata, a “operare per il bene del popolo”. Di solito non si osava nemmeno preparare un cambiamento di principe o di dinastia regnante senza aver fatto prima una dichiarazione di sottomissione a un qualche futuro sovrano: “Il re è stato ucciso! Viva il re!” gridavano i sudditi sempre fedeli a un padrone, anche nei momenti di rivolta. Durante i secoli questo è stato immancabilmente il corso della storia. “Come si potrebbe vivere senza padroni!” affermavano gli schiavi, le loro spose, i loro figli, i lavoratori nelle città e nelle campagne; e, deliberatamente, ponevano il capo sotto il giogo, come fa il bue quando tira l’aratro. Ci ricordiamo degli insorti del 1830 che volevano “la migliore delle repubbliche” rappresentata da un nuovo re, e i repubblicani del 1848 che rientravano in silenzio nelle loro catapecchie dopo aver dedicato “tre mesi di miseria al servizio del governo provvisorio.”  Alla stessa epoca una rivoluzione scoppiava in Germania e un parlamento popolare si riuniva a Francoforte: “l’antico potere è ridotto a un cadavere” affermava con forza uno dei rappresentanti. “Sì - replicava il presidente - ma noi lo faremo risuscitare. Chiameremo delle persone nuove che sapranno ristabilire con la loro autorità la potenza della nazione.”

Non è forse il caso qui di ripetere i versi di Victor Hugo: “Un vecchio istinto umano porta a commettere cose infami?”

Contro questo istinto, l’anarchia rappresenta davvero uno spirito nuovo. Non si può affatto rimproverare ai libertari che essi cerchino di sbarazzarsi di un governo per sostituirsi a lui: “Levati di là che mi ci metto io!” Questa è una frase che gli anarchici avrebbero orrore a formulare e, a priori, essi disonorano e disprezzano, o quanto meno sentono della pietà per colui che, colpito dalla bramosia del potere, si lasciasse tentare dall’occupare una qualche carica con la scusa di fare, anche lui, “il bene dei suoi concittadini”. Gli anarchici riconoscono, sulla base dell’osservazione della realtà, che lo Stato e tutto ciò che si ricollega ad esso, non è una pura entità o una qualche formula filosofica, ma un insieme di individui posti in un ambiente del tutto particolare e che ne subiscono l’influsso. Coloro che sono elevati su un piedistallo, con poteri straordinari, e con un trattamento speciale, al di sopra dei loro concittadini, sono inevitabilmente costretti, per così dire, a credersi superiori alla gente comune, e al tempo stesso, le tentazioni di ogni tipo a cui sono soggetti li fanno cadere, quasi fatalmente, al di sotto del livello generale.

Per questo noi ripetiamo incessantemente ai nostri amici - talvolta dei fratelli nemici - i socialisti statalisti: “Fate attenzione ai vostri capi e rappresentanti! Come voi, essi sono animati di certo dalle migliori intenzioni; essi vogliono ardentemente la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e dello stato tirannico; ma i rapporti, le condizioni nuove in cui arrivano a trovarsi, li modificano a poco a poco. La loro morale cambia con i loro interessi, e, credendosi sempre fedeli alla causa del loro mandato, finiscono inevitabilmente per tradirla. Anch’essi, detentori del potere, dovranno servirsi degli strumenti del potere: l’esercito, la propaganda, i magistrati, i poliziotti e le spie. Tremila anni fa il poeta indù che ha redatto il Mahâ Bhârata [3] ha sintetizzato a questo riguardo l’esperienza di secoli: “L’essere umano che viaggia su una portantina non sarà mai amico di quello che va a piedi!”

Così gli anarchici hanno, riguardo allo Stato, i princìpi più netti: secondo loro la conquista del potere non può servire che a prolungarne la durata in vita, assieme alla schiavitù che ne risulta. Non è quindi senza motivo che il nome di “anarchici”, che ha un significato negativo, è quello con il quale noi siamo universalmente qualificati. Ci potrebbero definire “libertari” come molti di noi si qualificano volentieri, o anche “armonisti” a causa del libero accordo che, secondo noi, dovrebbe caratterizzare la società futura. Ma questi termini non ci differenziano abbastanza dai socialisti. È proprio la lotta contro ogni potere imposto che ci distingue essenzialmente. Ogni individualità ci appare come il centro dell’universo, e ognuno ha gli stessi diritti a uno sviluppo integrale, senza le interferenze di un potere che lo diriga, lo rimproveri, lo castighi.

Voi conoscete il nostro ideale. Ora, il primo interrogativo che si pone è il seguente: “Questo ideale è veramente nobile e merita il sacrificio da parte di persone devote e i terribili rischi che tutte le rivoluzioni portano con sé? La morale anarchica è qualcosa di puro? Nella società libertaria, una volta formata, l'essere umano sarà forse migliore di quanto sia nella società che poggia sulla paura del potere e delle leggi? Io rispondo con tutta sicurezza, e spero che anche voi ben presto risponderete allo stesso modo: “Sì, la morale anarchica è quella che meglio corrisponde alla concezione moderna della giustizia e della bontà.”

La base dell’antica morale, voi lo sapete, non era altro che il timore, il “tremare di paura” come dice la Bibbia e come vi hanno insegnato in gioventù attraverso innumerevoli precetti. “Il timore di Dio è l’inizio della saggezza”; questo fu, un tempo, il punto di partenza di ogni processo educativo. La società, nel suo insieme si fondava sul terrore. Gli individui non erano dei cittadini ma dei sudditi o delle pecore; le spose erano delle serve, i figli degli schiavi sui quali i genitori avevano, come nell’antichità, un diritto di vita e di morte. Dappertutto, in tutte le relazioni sociali, apparivano rapporti di dominio e di subordinazione; e ancora ai giorni nostri, il principio stesso su cui si regge lo Stato e tutte le entità statuali che lo costituiscono, è la gerarchia, o la “santa” archia, l’autorità “sacra” - questo è il vero senso del termine. E questo dominio sacro-santo comporta l'esistenza di tutta una serie di classi, e quelle poste in alto hanno il diritto di comandare, mentre quelle poste in basso hanno il dovere di obbedire. La morale ufficiale consiste nell’inchinarsi davanti al superiore e nel comportarsi con sfrontatezza davanti ai subordinati. Ogni persona deve avere due facce, come Giano, due sorrisi, l’uno adulatore, sollecito, talvolta servile, l’altro superbo e di una altezzosa condiscendenza. Il principio autoritario - così si chiama - esige che il superiore non dia mai l’impressione di avere torto e che, in tutti gli scambi verbali, egli abbia sempre l’ultima parola. Ma, soprattutto, occorre che i suoi ordini siano osservati. Questo semplifica tutto: non c’è più bisogno di ragionamenti, spiegazioni, esitazioni, discussioni, dubbi. Le faccende procedono, male o bene, sulla base di automatismi. E quando non è direttamente presente un padrone per comandare, non ci sono forse formule belle e fatte, degli ordini, dei decreti o delle leggi, promulgate da padroni assoluti o da legislatori a vari livelli? Queste formule rimpiazzano gli ordini diretti e sono osservate senza chiedersi se sono conformi alla voce interiore della propria coscienza.

Tra persone uguali le cose sono più difficili ma anche di una sostanza più elevata: occorre ricercare ardentemente la verità, individuare quali sono i doveri personali, imparare a conoscersi, educare sé stessi in permanenza, comportarsi nel rispetto dei diritti e degli interessi altrui. Solo allora si diventa realmente un essere morale, si acquisisce la coscienza della propria responsabilità. La morale non è un comando al quale ci si sottomette, una formula che uno ripete, un fenomeno esteriore all’individuo; essa diventa parte dell’essere umano, un prodotto stesso della vita. È così che intendiamo la morale, noi anarchici. Non abbiamo quindi il diritto di confrontarla, con soddisfazione, con quella che ci è stata tramandata dal passato?

Mi darete forse ragione? Ma anche qui, molti di voi penseranno che sia una chimera. In questo caso sarei contento se, in questa concezione, voi vedeste almeno una nobile chimera. Ma io vado ancora più oltre e affermo che il nostro ideale, la nostra idea della morale è qualcosa che si colloca nella logica della storia, un prodotto naturale dell’evoluzione dell’umanità.

[…]

Là dove la pratica anarchica trionfa è nel corso ordinario della vita, tra le persone del popolo che, di certo, non potrebbero sostenere la terribile lotta dell’esistenza se non si aiutassero l’un l’altra, spontaneamente, ignorando le differenze e le rivalità di interessi. Quando uno di loro si ammala, altri si prendono cura dei suoi bambini, si preoccupano di preparare il cibo, dividono tra di loro i pochi viveri, cercando di occuparsi anche delle proprie faccende, raddoppiando le ore di lavoro. Tra i vicini si crea una sorta di comunismo, prestandosi le cose a vicenda, con un va e vieni di tutti gli utensili casalinghi e delle provviste. La miseria unisce i sofferenti in una comunità fraterna: assieme essi hanno fame, assieme essi si sfamano.

La morale e la pratica anarchiche sono la regola anche quando i borghesi si riuniscono, pur se questi aspetti potrebbero sembrare del tutto assenti. Potete voi immaginarvi una festa campestre nella quale qualcuno, l’ospite o uno degli invitati, ostenti un’aria da padrone, assegnandosi la licenza di comandare o di far prevalere in maniera sfacciata i suoi capricci! Non sarebbe questa la fine di un ritrovarsi con gioia, con gusto? Non c’è felicità che fra esseri uguali e liberi, tra persone che possono divertirsi come piace a loro, per gruppi distinti, se così vogliono, ma vicini e mescolati a modo loro, gli uni con gli altri, perché così le ore trascorse assieme appaiono più dolci.

Qui mi consentirete di raccontarvi una esperienza personale. Stavamo navigando su una di quelle navi moderne che fendono superbamente i flutti alla velocità di quindici-venti nodi all’ora, e che percorrono una linea diritta da continente a continente, malgrado i venti e le maree. L’aria era calma, la serata dolce e le stelle splendevano a una a una nel cielo scuro. Si conversava a poppa, e di cosa si poteva discutere se non di questa eterna questione sociale, che ci tiene avvinti e ci stringe alla gola come la sfinge di Edipo [4].  Il conservatore che faceva parte del gruppo era incalzato dai suoi interlocutori, tutti più o meno socialisti. Ad un tratto si rivolse al capitano della nave, colui che rappresentava il potere sulla nave, sperando di trovare in lui un difensore naturale dei “sani” principi: “Voi qui comandate! Il vostro potere non è forse sacro? Cha cosa avverrebbe se la nave non fosse diretta dal vostro costante volere?”

“Voi siete una persona parecchio ingenua - rispose il capitano. Detto tra di noi, posso dirvi che io non servo assolutamente a nulla. Il marinaio al timone mantiene la nave nella sua giusta direzione; tra qualche minuto un altro pilota lo sostituirà, e poi altri ancora prenderanno il suo posto, e noi seguiremo, senza il mio intervento, la rotta stabilita. In basso, i fuochisti e i macchinisti lavorano senza la mia assistenza, senza le mie indicazioni, e meglio di quanto potrebbero fare se io mi intromettessi a consigliarli. E tutti questi marinai sanno quello che c’è da fare e, all’occasione, non ho che da coordinare la mia piccola parte di attività con la loro, che è più faticosa e meno retribuita della mia. Indubbiamente si pensa che io debba guidare la nave. Ma non vedete forse che si tratta di una semplice apparenza? Le mappe per la navigazione sono là e non sono io che le ho disegnate. La bussola ci dirige e non sono io che l’ho inventata. Qualcuno ha scavato per noi l’accesso al porto da cui siamo partiti e quello a cui arriveremo. E questa meravigliosa nave, che sotto i colpi furiosi delle onde non fa una piega, dondolandosi maestosamente sull’acqua, navigando potentemente spinta dai motori, non sono io che l’ho costruita. Chi sono io a confronto delle grandi figure morte, degli inventori, degli scienziati, di coloro che ci hanno preceduto, di tutti quelli che ci hanno insegnato a traversare i mari? Noi siamo tutti degli associati, noi, i miei compagni marinai, e anche voi passeggeri, perché è per voi che cavalchiamo le onde e, in caso di pericolo, contiamo su di voi per un aiuto fraterno. La nostra opera è comune, e siamo tutti solidali gli uni con gli altri!”

Tutti rimasero in silenzio. Io ho conservato preziosamente nella memoria le parole del capitano, questo essere fuori del comune.

Così questa nave, questo mondo galleggiante nel quale le punizioni sono sconosciute, costituisce una repubblica modello che attraversa l’oceano malgrado una gerarchia bizantina. E questo non è un caso isolato. Ognuno di voi conosce, almeno per il racconto di altri, esempi di scuole in cui il professore, nonostante la severità dei regolamenti, sempre inapplicati, si comporta nei confronti degli alunni con familiarità, come se fossero collaboratori contenti di apprendere. L’autorità competente tutto prevede per domare i piccoli ribelli, ma il loro grande amico, l’insegnante, non ha bisogno di questo armamentario repressivo. Egli tratta i ragazzi come persone mature, facendo costantemente appello alla loro buona volontà, alla loro capacità di comprendere le cose, al loro senso di giustizia, e tutti rispondono con gioia. Una piccola società anarchica, profondamente umana, si trova così formata, sebbene tutto sembri congegnato nell’ambiente circostante per impedirne la nascita: le leggi, i regolamenti, i cattivi esempi, l’immoralità statale.

Nuovi gruppi anarchici sorgono di continuo, malgrado i vecchi pregiudizi e il peso morto degli antichi modi di essere. Il nostro nuovo mondo spunta intorno a noi, come germinerebbe un fiore nuovo fra vecchie macerie. Non solamente non si tratta di una chimera, come si ripete di continuo, ma, questo nuovo mondo si mostra già sotto mille forme; cieco è colui che non sa vederlo. Invece, se c’è una società campata per aria, impossibile a far funzionare, è proprio questo pandemonio assurdo nel quale viviamo.  Voi riconoscerete che io non ho abusato della critica, pertanto così facile a farsi nei confronti del mondo attuale, come è stato istituito sotto il cosiddetto principio autoritario e di lotta feroce per l’esistenza. Ma, se è vero che, in base alla definizione stessa, una società è un gruppo di individui che si uniscono e si mettono d’accordo per il bene comune, non si può dire di certo che la massa caotica che ci circonda costituisca una società!

Secondo i suoi sostenitori - in quanto anche le cattive cause hanno dei sostenitori - essa avrebbe per scopo l’ordine perfetto per il soddisfacimento degli interessi di tutti. Ora, non è questa forse una assoluta presa in giro dal momento che noi vediamo una società, organizzata nell’ambito della civiltà europea, che è affetta da una serie continua di drammi interni, omicidi e suicidi, violenze e sparatorie, decadenza e miseria, ruberie, frodi e inganni di ogni tipo, fallimenti, crolli e rovine. Chi di noi, uscendo da questa sala, non vedrà sorgere, accanto a lui, gli spettri del vizio e della fame? Nella nostra Europa ci sono cinque milioni di uomini in uniforme militare che attendono solo un segnale per scagliarsi contro altri uomini, per ucciderli e bruciarne le abitazioni e i raccolti; dieci altri milioni sono tenuti in riserva, fuori delle caserme, in attesa solo di essere chiamati per compiere la stessa opera di distruzione; cinque milioni di sventurati vivono o vegetano nelle prigioni, condannati a pene diverse; dieci milioni di persone muoiono ogni anno di morti premature; e su 370 milioni di abitanti, 350, per non dire tutti, fremono di inquietudine per cosa riserverà loro il futuro. Malgrado l’abbondanza delle ricchezze sociali, chi di noi può affermare che un brusco cambiamento della sorte non gli farà perdere tutti i suoi beni? Questi sono dei fatti che nessuno può contestare, e che dovrebbero, a mio parere, ispirare a tutti noi la ferma risoluzione di cambiare tale stato di cose, foriero di sconvolgimenti incessanti [5].

 


Note

[1] A-cratos: a privativa = senza; cratos = dominio, potere. È un vocabolo utilizzato come sinonimo di anarchia.

[2] L'Abbazia di Thélema (dal greco θέλημα, "desiderio" o "volontà") appare nell'opera di François Rabelais Gargantua et Pantagruel ed è un luogo in cui vivono in comunità uomini e donne dotati di certe qualità (bontà, bellezza, gentilezza), indipendentemente dalla loro condizione di nascita o stato sociale.

[3] Mahâ Bhârata, poema epico dell'antica India, in lingua sanscrita, che contiene materiali filosofici e di devozione religiosa.

[4] Nella mitologia greca Edipo riuscì a risolvere l'enigma della Sfinge posto all'ingresso della città di Tebe. Coloro che non lo risolvevano venivano strangolati. L'enigma era formulato così: «Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede e tripode?». Edipo sconfisse la Sfinge dando come risposta: l'essere umano, e spiegando che il bambino gattona, l'adulto si muove su due gambe e l'anziano utilizza un bastone per sostenersi meglio quando cammina.

[5] Esattamente venti anni dopo, il 28 luglio 1914, sarebbe scoppiata la Prima Guerra Mondiale. 

 

 


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