Nota
Una presa di posizione netta e precisa sul rifiuto di uno stato palestinesi che propone implicitamente la presenza di due comunità non statali (quella palestinese e quella ebraica) che possono benissimo convivere sullo stesso territorio, come è già avvenuto in passato. L'unica condizione preliminare perché questo sia possibile è che nessuna delle due comunità si arroghi privilegi e arie di superiorità morle e culturale che non hanno alcuna ragione di essere.
Pubblicato su “Provocazione”, n. 18, dicembre 1988, pp. 1-2
Sullo slancio dell’insurrezione popolare nei territori occupati di Gaza e Cisgiordania, l’OLP ha costituito lo Stato palestinese.
Quello che certamente è visto da molti come un evento positivo non può che essere considerato da noi come un arretramento, uno sviamento dall’indirizzo giusto e produttivo che le lotte palestinesi avevano preso negli ultimi mesi.
L’apparato burocratico dell’OLP è intervenuto, e non si può dire che non ci siano state le complicità di quegli Stati islamici che vedono di buon occhio la nascita di una entità statale palestinese in Medioriente, ed intervenendo, ha posto la più seria ipoteca allo sviluppo delle lotte in senso antistatale, che poi sarebbe l’unico sviluppo possibile nei riguardi della realtà ebraica insediata nella medesima zona.
La presenza di uno Stato palestinese, per quanto fantomatico questo appaia oggi, potrà condurre solo a sterili accordi diplomatici, internazionalmente condizionati, accordi che renderanno impossibile una pacifica convivenza tra due comunità – quella palestinese e quella israeliana – le quali, ambedue, hanno diritto a vivere nel proprio territorio.
Con tutte le probabilità di questo mondo, l’azione dello Stato palestinese si indirizzerà verso quei canali che sono usuali per ogni Stato: rafforzamento militare, intervento armato generalizzato, trasformazione di possibili accordi diplomatici in strumenti di ritorsione e di minaccia.
La strada ora percorsa dagli ebrei è lì a insegnare quanto possano fare presto gli sfruttati e gli oppressi, se irreggimentati da funzionari statali, a trasformarsi in sfruttatori e oppressori.
La lotta di liberazione dei palestinesi, per com’è stata condotta negli ultimi quarant’anni, avrà avuto dei chiaroscuri di maggiore o minore intensità, ma non ha mai perduto, nemmeno nei momenti delle peggiori azioni di ritorsione (ad esempio, l’azione contro l’aeroporto di Lot), il valore della rivolta popolare. Certo, anche in quelle condizioni passate, c’era dietro l’angolo la mano delle organizzazioni, e dell’OLP in primo luogo, ma si trattava in fondo di una mano strumentale che poteva essere scartata, che non condizionava tutti in nome di un codice preciso, fissato nel consesso delle nazioni di tutto il mondo.
Non sappiamo quanto, anche in un momento d’unanime consenso, queste nazioni di tutto il mondo, USA in testa, possano realmente fare per il popolo palestinese che continua a morire, a essere torturato. Non possono certo entrare nelle questioni interne dello Stato israeliano, se non altro per il medesimo motivo di diritto internazionale che rende sovrani, e quindi insindacabili, gli Stati di tutto il mondo. Insindacabile Israele nel suo “diritto” di continuare ad opprimere il popolo palestinese, e insindacabile la Palestina nel suo “diritto” di non essere oppressa, occupata, distrutta, uccisa, torturata, ecc. Ognuno avrebbe i suoi “diritti” e di questo si potrebbe fare usbergo solo attraverso la forza delle proprie (e delle altrui) armi. Faccenda che si sa dove può condurre.
Lo Stato così costituito potrebbe essere un grosso ostacolo nella lunga e difficile strada della liberazione del popolo palestinese. Se non altro perché chi soffre difficilmente capisce cose del genere, le quali possono sembrare sfumature. Il costituirsi di un’organizzazione è spesso visto come un fatto positivo. Si diventa più forti. Si può contrattare da pari a pari con tutte le altre nazioni del mondo. E se fosse proprio questo il modo per fornire una contrattazione apparente e una sostanziale continuazione dell’oppressione? E se il permesso dato ad Arafat di diventare capo di Stato non fosse altro che un modo diplomaticamente valido di lavarsi le mani?
Nessuno può escludere che le cose non stiano in questo modo. Alla fine, gli applausi che in casa nostra sono andati al nascente Stato palestinese, sono arrivati da parti contraddittorie: dal Ministero degli Esteri e da organizzazioni di compagni che certo non si muovono nell’aria dei ministeri. Da cosa dipende questa coralità d’intenti? In primo luogo dal fatto che ambedue, ministri e rivoluzionari autoritari, viaggiano sulla medesima lunghezza d’onda: la grandezza dell’organizzazione fa la forza del movimento di lotta e, da questa forza, viene fuori la vittoria. Questo ragionamento, che non è mai stato il nostro, non può quindi portarci a condividere la gioia che tanti provano per la nascita dello Stato palestinese.
C’è di più. Secondo noi, l’ineffabile Andreotti [1988] denuncia molto bene il senso di questo fatto. Lo Stato palestinese diventa un ottimo interlocutore diplomatico. Le pressioni si faranno per via diplomatica. Si cercherà di far capire ad Israele, quello che quest’ultimo Stato, chiuso nella logica teocentrica, non può capire. Tanto, ad Andreotti e allo Stato italiano, e a tutti gli Stati del mondo, cosa importa della sorte di cinque milioni di palestinesi?
Lo stesso per i rivoluzionari tardo-autoritari di casa nostra. Cosa potevano proporre di diverso? Forse un intervento diretto contro lo Stato israeliano? Forse un sostegno diretto all’insurrezione palestinese nei territori occupati? Certo che no! Adesso che lo Stato c’è, anche per questi ultimi pionieri della struttura a ogni costo ci sarà modo di organizzare sostegni all’ombra del modello già visto.
Pensiamo che la situazione non sia migliorata con la decisione di Algeri. Vera o irreale che questa sia stata. L’unica realtà su cui indirizzare i nostri sostegni, su cui riflettere agendo, è quella costituita dalle centinaia di giovani che resistono a colpi di pietra contro i carri armati israeliani che stanno occupando la loro terra. Una realtà per niente diplomatica o statale.