Nota
Il ritratto che Kropotkin fa degli stati è valido oggi come lo era più di cento anni fa. Eppure la fine degli stati tarda a venire. Il fatto è che non si tratta solamente di comprendere quanto nocivi siano tutti gli stati per lo sviluppo personale e sociale, ma anche di mettere in atto strutture (le comunità volontarie) in grado di sostituirli sia nella mente delle persone che nella loro pratica quotidiana. Per attuare ciò è necessario comportarsi da esseri umani autonomi invece di continuare a vivere come automi al servizio del padrone politico e di quello economico, le due facce della stessa oppressione e manipolazione.
Fonte: Pëtr Kropotkin, La décomposition des états, articolo pubblicato su Le Révolté, bimensile anarchico redatto a Ginevra, nel numero del 5 Aprile 1879. Questo scritto fa anche parte dell'antologia degli articoli di Kropotkin, scelti da Elisée Reclus e pubblicati sotto il titolo, Paroles d'un révolté, 1885.
Se la situazione economica dell’Europa si riassume nelle seguenti parole: caos industriale e commerciale e fallimento della produzione capitalistica, la situazione politica si caratterizza per i seguenti aspetti: decomposizione galoppante e tracollo prossimo degli stati.
Visitateli tutti, dall’autocrazia poliziesca della Russia fino all’oligarchia borghese della Svizzera, voi non ne troverete uno solo che non marci a passo accelerato verso la decomposizione e, in seguito, verso la rivoluzione.
Organismi vecchi e impotenti, con la pelle incartapecorita e i piedi barcollanti, consunti da malattie costituzionali, incapaci di assorbire il flusso di idee nuove, essi consumano le poche forze loro rimaste, vivono a spese del passato, e affrettano la loro caduta dilaniandosi tra di loro come dei vecchiacci rancorosi.
Una malattia incurabile li affligge tutti: è la malattia della senilità, del declino. Lo stato, questa organizzazione alla quale si affida, nelle mani di alcuni, la gestione in blocco di tutte le faccende di tutte le persone, questa forma di organizzazione degli esseri umani ha fatto il suo tempo. L’umanità elabora già nuovi modi di associarsi.
Dopo aver raggiunto il loro punto culminante nel diciottesimo secolo, i vecchi stati d’Europa sono entrati adesso nella loro fase discendente; cadono in putrefazione. I popoli - soprattutto quelli di razza latina - aspirano già adesso alla demolizione di questo potere che non fa altro che impedire il libero sviluppo. Essi vogliono l’autonomia delle province, dei comuni, delle associazioni operaie federate tra di loro, e non più per mezzo di un potere che li domini, ma attraverso relazioni e accordi reciproci, volontariamente accettati.
Questa è la fase storica in cui entriamo; nulla ne impedirà la realizzazione.
Se le classi dirigenti avessero la consapevolezza del loro ruolo, esse si premurerebbero di porsi alla testa di queste aspirazioni. Ma, invecchiate nelle tradizioni, prive di altra fede se non quella di accumulare ricchezze, esse si oppongono con tutte le loro forze a questa nuova corrente di idee. E fatalmente ci conducono verso un sommovimento violento. Le aspirazioni dell’umanità prenderanno corpo, ma al rombo dei cannoni, con il crepitio delle mitragliatrici, e al bagliore degli incendi.
Quando, dopo la caduta delle istituzioni del Medio Evo, gli stati nascenti hanno fatto la loro comparsa in Europa e si sono affermati e ingranditi attraverso le conquiste territoriali, con gli inganni e le violenze, essi non si intromettevano ancora nelle attività delle persone se non in una parte ristretta.
Al giorno d’oggi lo stato è arrivato a immischiarsi in tutte le manifestazioni della nostra vita. Dalla culla alla tomba, esso ci soffoca tra le sue braccia. Sia come stato-centrale che come stato-provincia o cantone, o come stato-comune, esso ci segue ad ogni passo, appare ad ogni angolo della strada, ci domina, ci vincola, ci assilla.
Lo stato legifera riguardo a tutte le nostre azioni. Accumula montagne di leggi e provvedimenti a tal punto che anche gli avvocati più astuti si trovano persi. Si inventa ogni giorno nuovi meccanismi che adatta goffamente alla vecchia baracca riverniciata, e arriva a creare un congegno così complicato, così ingarbugliato, così inefficiente, che ripugna persino a coloro che sono incaricati di farlo funzionare.
Lo stato crea un esercito di funzionari, di scribacchini, che osservano il mondo esterno solo attraverso i vetri sporchi dei loro uffici o dietro una montagna di documenti ufficiali dal significato del tutto oscuro e assurdo; una banda di malfattori che non ha che una fede, quella del denaro; che non ha che una preoccupazione, quella di infilarsi all’interno di un qualsiasi partito, nero, rosso o bianco, che gli garantisca il massimo di posti per un minimo di lavoro.
I risultati li conosciamo fin troppo bene. C'è forse un solo ramo di attività statale che non susciti la ribellione in coloro che, malauguratamente, hanno a che fare con esso? Un solo settore in cui lo stato, dopo secoli di esistenza e di rabberciamenti, non abbia mostrato la sua totale incapacità?
Le somme immense e sempre crescenti che gli stati prelevano dalle persone non sono loro mai sufficienti. Lo stato campa sempre a spese delle generazioni future; si indebita e, dappertutto, marcia verso la rovina.
I debiti degli stati europei hanno già raggiunto cifre enormi, incredibili, di più di cento miliardi, centomila milioni di franchi! Se tutte le entrate degli stati fossero utilizzate, fino all’ultimo soldo, per pagare questi debiti, esse non basterebbero per i prossimi quindici anni. Ma, invece di diminuire, l’indebitamento aumenta giorno dopo giorno. È un dato di fatto incontrovertibile che i bisogni dello stato superano sempre i mezzi.
Lo stato, immancabilmente, cerca di estendere le sue attribuzioni e questo perché ogni partito che arriva al potere è costretto a creare nuovi posti di lavoro per piazzare i suoi sostenitori. È fatale che sia così.
Quindi, i deficit e l’indebitamento statali crescono e cresceranno ancora, anche in tempo di pace. E quando arriva una qualche guerra, immediatamente i debiti dello stato aumentano in una proporzione smisurata. Non vi è fine all’indebitamento ed è impossibile uscire fuori da questo groviglio di cose.
Gli stati marciano a tutta velocità verso la rovina e la bancarotta; e non è lontano il giorno in cui i popoli, stanchi di pagare ogni anno quattro miliardi di interessi ai banchieri, dichiareranno il fallimento degli stati e manderanno questi finanzieri a zappare la terra se vogliono mangiare.
Chi dice “stato” dice necessariamente “guerra”. Lo stato cerca e deve cercare di essere forte, più forte dei suoi vicini. Altrimenti sarà una marionetta nelle loro mani. Cerca, necessariamente, di indebolire e impoverire gli altri stati per imporre la sua legge, la sua politica, i suoi trattati commerciali, per arricchirsi a loro spese. La lotta per la supremazia, che è la base dell’organizzazione economica borghese, è anche a fondamento dell’organizzazione politica. È per questo che la guerra è divenuta al giorno d’oggi la condizione normale dell’Europa. La guerra prusso-danese, prusso-austriaca, franco-prussiana, la guerra in Oriente, la guerra in Afghanistan, si succedono l’un l’altra senza interruzione. E nuove guerre si preparano. La Russia, l’Inghilterra, la Prussia, la Danimarca, sono pronte a scatenare i loro eserciti e, al minimo pretesto, arrivare allo scontro diretto. Ci sono già motivi di guerra per i prossimi trenta anni.
Ora, la guerra significa disoccupazione, crisi, tasse che crescono, debiti che si accumulano. E oltre a tutto ciò, la guerra è uno scacco morale per gli stati. Dopo ogni guerra i popoli si rendono conto che lo stato è una nullità anche per quanto riguarda la sua attribuzione principale, e cioè la sicurezza. A malapena lo stato sa organizzare la difesa del territorio. Anche quando è vincitore, subisce una sconfitta. Osservate soltanto i fermenti di idee sorti dalla guerra del 1871 [la guerra franco-prussiana 1870-1871] sia in Germania che in Francia. Osservate il malcontento che si è sollevato in Russia a seguito della guerra in Oriente [la guerra russo-turca 1877-1878].
Le guerre e la corsa agli armamenti uccidono gli stati; accelerano la loro bancarotta morale ed economica. Ancora una o due grandi guerre e assisteremo al colpo di grazia di questi apparati marci.
Accanto alle guerre verso l’esterno abbiamo la guerra all’interno degli stati.
Accettato dalle popolazioni a condizione che sia il difensore di tutti e soprattutto dei deboli contro i forti, lo stato è diventato oggi la roccaforte dei ricchi contro gli sfruttati, dei proprietari contro i proletari.
A cosa serve questa immensa macchina che chiamiamo stato? Serve forse a impedire lo sfruttamento dell’operaio da parte del capitalista, dell’agricoltore da parte del latifondista? Ci garantisce la possibilità di lavorare? Ci difende dall’usuraio? ci fornisce il cibo quando la madre di famiglia non ha che dell’acqua per calmare il pianto del bambino attaccato al suo seno inaridito?
No, mille volte no! Lo stato è il protettore degli sfruttatori, dei profittatori, della proprietà frutto dell’esproprio. Il proletario, che non ha che la sua energia per venirne fuori, non deve attendersi nulla dallo stato. Nello stato non troverà che una istituzione che farà di tutto per impedirgli di emanciparsi.
Lo stato fa tutto per il proprietario parassita e tutto contro il proletario produttore: con l’istruzione borghese che, fin dalla prima età, corrompe il bambino inculcandogli pregiudizi a favore delle disuguaglianze; con la Chiesa che oscura il cervello delle donne; con la legge che ostacola la diffusione delle idee di solidarietà e di equità; con il denaro utilizzato per corrompere colui che vorrebbe promuovere la solidarietà tra i lavoratori; con la prigione e la mitragliatrice, secondo i casi, per chiudere la bocca a coloro che non si lasciano corrompere. Ecco cos'è lo stato.
Durerà tutto ciò? Può durare? Evidentemente no. Una classe intera dell’umanità, quella che produce tutto, non può sostenere per sempre una istituzione creata appositamente contro di lei. Dappertutto - sotto la brutalità russa come sotto l’ipocrisia gambettista [1] - il popolo scontento si ribella. La storia dei nostri giorni è la storia dello scontro tra governanti privilegiati e le aspirazioni del popolo contro i privilegi. Questa lotta costituisce la preoccupazione principale dei governanti; essa influenza i loro atti. Non sono dei princìpi, delle considerazioni attinenti al bene comune che determinano al giorno d’oggi la comparsa di una certa legge o di un certo decreto governativo. Esistono solo motivi di conservazione dei privilegi, contro il popolo.
Da sola, questa lotta sarebbe sufficiente a distruggere l’organizzazione politica anche la più forte. Ma, quando essa si manifesta all’interno di stati che marciano già, per fatalità storica, verso il declino; quando questi stati corrono a tutto vapore verso la rovina e, per di più, si dilaniano l’uno contro l’altro; quando infine, lo stato, che tutto può, si rende odioso anche a quelli che protegge, quando tutte queste cause concorrono verso un unico fine, allora l'esito della lotta non può essere messo in dubbio. Il popolo, pieno di energia, avrà ragione dei suoi oppressori.
La fine degli stati non è altro che questione di tempo e anche il pensatore più moderato intravede i bagliori di una grande rivoluzione che si prospetta.
[1] Léon Gambetta (1838-1882), uomo politico francese di tendenze radicali. Ha occupato anche posizioni di potere nell'ambito dello stato.